Il mercato cambia, interi settori produttivi attraversano periodi nei quali tutto si riassesta, tutto si ridefinisce sulla base dei consumi e, ancor prima, dei mezzi di distribuzione: crisi passeggere, sanabili nel breve o medio termine, possono alternarsi a crisi strutturali, capaci di cambiare definitivamente volto a un intero comparto economico, ai suoi numeri, alla sua narrazione, al suo indotto e ai suoi prodotti.

Non è affatto un mistero che negli ultimi quindici anni il settore discografico abbia subito il più grande dei terremoti economici della sua intera storia: a partire dai suoi esordi, quelli con le arie di Caruso e le primissime jazz band, la discografia non aveva mai conosciuto un momento tanto economicamente drammatico, piombando in quella che ho altrove definito, nel Manuale di storia della popular music e del jazz, deflazione musicale.

Il tutto ha inizio, all’alba del nuovo millennio, con la nascita sul web dei primi servizi di download musicale gratuito (e illegale), a cui lo storico Napster fa da apripista seguito subito dopo da WinMX, eMule e così via.

La vendita dei supporti fisici si è già da tempo avviata a una morte preannunciata, e i successivi servizi di streaming musicale, sia nelle versioni in abbonamento che, ancor più, in quelle gratuite, non fanno che da inesorabile acceleratore al processo deflattivo: l’industria discografica va dunque incontro a una drastica riduzione dei proventi che ha come primo effetto quello di una globale deflazione musicale. L’illustre precedente storico lo si trova negli effetti della guerra del Kippur, il conflitto arabo-israeliano che, portando alle stelle il prezzo del petrolio, provoca intorno alla metà degli anni Settanta la più importante crisi economica a partire dalla seconda guerra mondiale.

L’industria discografica, così come qualsiasi altro settore industriale, reagisce contenendo il più possibile i costi di produzione, dunque licenziando e puntando tutto, dopo le esose produzioni del rock progressive, su generi a basso costo come il punk. Come sempre, da sempre, è l’economia a dettare le regole dell’evoluzione, o involuzione, artistica e musicale. Una crisi, quella indotta dalla summenzionata guerra, occasionale, pandemica e non sistemica, a fronte invece di quella, attuale, non occasionale, endemica e spiccatamente sistemica. Stiamo altrimenti dicendo che la crisi indotta dai nuovi mezzi di distribuzione musicale, quella che è andata a falcidiare le case discografiche, è propria del solo settore musicale, dunque endemica e non, come nel caso degli effetti prodotti dalla summenzionata guerra del Kippur, pandemica, coinvolgente cioè una pluralità di settori produttivi.

Stiamo altrimenti dicendo che questa inedita condizione dipende da un nuovo, e a tutta prima duraturo, sistema distributivo che, andando di ritorno a fortemente condizionare la produttività, determina il carattere sistemico della presente crisi; stiamo altrimenti dicendo, infine, che la solidità di questo nuovo tipo di sistema fruitivo è tale da evidenziarne fin d’ora la sua futura durata temporale, la sua natura non congiunturale, non occasionale. Così come gli effetti ultimi della guerra del Kippur videro sorgere, nel settore discografico, generi come il punk, gli effetti ultimi della deflazione musicale vedono oggi, e già da qualche anno, l’affermazione su larga scala del rap e l’emergere del sottogenere trap, entrambi, come già il punk, a basso o bassissimo costo.

Questi generi riescono così a imporsi principalmente grazie ai contenutissimi costi di produzione, laddove invece le grandi produzioni rock e pop faticano a trovare le risorse necessarie per dar seguito a progetti di più ampio respiro artistico e musicale. I tagli orizzontali e la produzione di merce a basso o bassissimo costo, dunque di minore qualità, non bastano però da sole a tener su un intero settore produttivo le cui royalties, grazie ai servizi in streaming, non vengono quasi più corrisposte: si ricorderà l’intervento, tra i tanti, di un membro dei Portishead, Geoff Barrow, che denunciava un guadagno netto, derivatogli da 34 milioni di stream su Spotify, di 1.700 sterline, equivalenti a poco meno di 2.000 euro!

Per cui ecco giungere l’ultimo tassello mancante, il mondo della moda, settore che già da tempo ha iniziato a sopperire alla mancanza di risorse del mondo discografico proponendo a etichette e artisti contratti per la pubblicizzazione dei propri marchi sia all’interno dei videoclip che nello stesso outfit del performer di turno: è così che gli interpreti più in voga del momento vengono addobbati di tutto punto facendosi essi stessi promotori, finanche nei testi dei propri brani, di questo o quel marchio, di questa o quella azienda, di questo o quel prodotto.

Articolo Precedente

Mauro Pagani, l’autobiografia di un artista fuggiasco come un lupo

next