Nell’ultimo post sottolineavo la mancanza di storia e contesto con cui vengono fornite alcune notizie di conflitti scolastici tra studenti insegnanti e genitori.
La sala professori rende abbastanza l’idea di quello che intendevo.

Il film parla di dinamiche scolastiche e del modo caratteristico dei nostri tempi in cui queste si realizzano. In una scuola media tedesca, ma potrebbe benissimo essere italiana, che si vanta dell’applicazione della tolleranza zero ai casi controversi, gli insegnanti e la dirigente si muovono in maniera incoerente al modello disciplinare che vorrebbero insegnare, o meglio, imporre superando il limite del rispetto dell’altro, lo studente appunto, stimolando reazioni a catena dove i tentativi maldestri di recuperare il controllo della situazione peggiorano ulteriormente le cose. Durante un piccolo consiglio disciplinare convocato per fare chiarezza su piccoli furti avvenuti a scuola, viene fatta pressione sui rappresentanti di classe per estorcere “la verità”.

Il film descrive molto bene come si costruisce un conflitto e come questo possa facilmente essere attribuito all’anello più debole: lo studente, meglio se straniero, che in quanto giovane, e di altra cultura, può essere più facilmente accusato, manipolato, ricattato, colpevolizzato, per eventi di cui non ha alcuna responsabilità. Se poi questo profilo non c’è va bene anche qualcun altro.

La prepotenza ha la meglio sull’evidenza e a farne le spese sono i ragazzi che alla fine reagiscono istintivamente, come impone il momento evolutivo.
La sala professori mette bene in scena come i conflitti abbiano una storia che può essere raccontata a partire da un preciso momento o da quello successivo e in base a questo spiegata da tanti punti di vista. Ognuno può costruirsi la relazione di causa/effetto che preferisce – costruendo una diversa “punteggiatura della sequenza di eventi”, come direbbe lo psicologo Paul Watzlawich – che spesso diventa verità assoluta, senza arrivare mai veramente a capire che cosa è successo, con la convinzione che il mondo sia o bianco o nero e basti semplicemente distinguere tra vittime e carnefici e dare al colpevole designato una punizione esemplare, per risolvere e chiudere le questioni.

Un modo così netto mal si adatta alla scuola che è un di intreccio di relazioni e ha oggi un compito ben più ampio del semplice luogo dell’apprendimento. Nel film paradossalmente il colpevole non solo non è lo studente “diverso”, ma non è proprio uno studente. L’insegnante illuminata, protagonista del film, che ha un approccio moderno e vuole contenere i danni e gli eccessi sui suoi studenti, alla fine viene guardata con sospetto, quasi isolata, diventando il catalizzatore di tutte le responsabilità.

La scuola invece ha bisogno di contare sul profilo di insegnanti come la prof.ssa Carla Nowak e la macchina della colpa deve trasformarsi nella macchina della ricostruzione del processo che ha portato a quel problema o a quel conflitto e si deve discutere su come migliorarlo piuttosto che su come eliminarlo. Le punizioni se proprio necessario, devono avere un senso, essere coerenti con quanto accaduto e soprattutto essere inclusive piuttosto che, come nel film, espellere con la forza un elemento, con il risultato di affermare un potere piuttosto che di risolvere un problema.

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