Quando gli americani decidono di proporci un film distopico sulla caduta della loro democrazia riescono sempre a riservarci qualche brivido, seppur condito da contemplazioni iconiche a effetto (pensiamo alla Casa Bianca esplosa in vari modi e lungometraggi). E da bravi occidentali, almeno un po’ ci caschiamo sempre. Non possiamo dire che in Civil War non vada così diversamente, ma Alex Garland, dopo l’inquietudine disseminata da Men riesce a creare una discreta chimica tra antieroi legandola all’elegia dell’arte fotografica, all’arrivismo femminile sul lavoro e, questo può essere accennato, a un pizzico di quella scaltrezza profittatoria del reporter che ben rappresentò un altro titolo abbastanza recente, Nightcrawler di Dan Gilroy. Ma soltanto un pizzico, si badi bene.

Fotografa di guerra tra le migliori in circolazione, Kristen Dunst scorrazza a bordo di un press-pickup insieme al suo socio Wagner Moura per un’America piegata da sé stessa nel cuore una guerra civile in corso. Lo scoop sarà la dichiarazione del Presidente prima di essere deposto con la forza dagli Stati ribelli. Il paesaggio sembra Gaza ma sono gli Usa. E il rancore popolare sembra una distopia di quello intorno a Trump già visto nel vero Assalto al Campidoglio del 2021. Ma raccogliere la giovane e talentuosa Cailee Spaeny (buon lavoro il suo anche come Priscilla di Sofia Coppola, tutt’ora in sala) e l’anziano e saggio giornalista Stephen McKinley Henderson renderà ogni posta più alta. Il cast, splendidamente solido e ben assortito chiude in un quadrilatero di assoluta cristallinità la grana umana della narrazione. Durante la visione si affollano nella mente tanti tg e alla fine resta una grande amarezza. L’intrattenimento è anche questo. Sarà al cinema solo dal 18 aprile.

L’11 aprile ritornano invece alcuni beniamini degli anni ottanta: gli Acchiappafantasmi. Pure piacevole Ghostbusters, Minaccia Glaciale, ma da un titolo così non si accetta facilmente un prodotto senza infamia e senza lode. I Reitman cedono definitivamente il timone della regia a Gil Kenan, forse è questo il principale problema. Tecnicismi abbastanza gradevoli, tanta voglia di imitare fasti passati, ma una capacità di messa in scena tale da far sembrare, più d’una volta, gli attori in piano d’ascolto un presepe vivente. Un vero peccato quando nella stessa inquadratura hai gli ottimi esponenti di ben 3 generazioni. Tre per tutti: Bill Murray tra i senior, Paul Rudd come adulto e Mckenna Grace giovane promessa. Quando il franchise diventa format si mettono a rischio qualità e riuscita commerciale. Con un budget di 100 milioni di dollari è uscito il 22 marzo in Usa e per ora viaggia su un incasso internazionale di 112 milioni circa, ma non saremo noi nel piccolo Stivale a cambiarne le sorti forse più legate al dopo-sala e al merchandising che al vecchio e nuovo fandome da sale piene.

Solcando l’Atlantico ce ne torniamo in Italia, dove dal 4 aprile è al cinema La seconda vita, di Vito Palmieri. Una giovane donna taciturna e dal passato misterioso, Marianna Fontana, arriva in un paese del Centro Italia per lavorare come bibliotecaria. La corteggerà un fabbro, Giovannni Anzaldo, impegnato col padre, Nicola Rignanese, nel restauro di una campana. Mentre il suo datore, di lavoro ne sospetta il passato, che il regista distillerà con un cadenzato contagocce durante tutto il film, la donna cerca di passare inosservata pur tenendosi dentro un nodo di segreti inconfessabili.

Palmieri stilizza come certi disegni a matita che ti entrano nel cuore l’incontro di due profonde solitudini, lascia allo spettatore i tempi giusti per calarsi sul terreno aspro del senso di colpa, apre uno spiraglio di riflessione sul pregiudizio, sulla fiducia nel prossimo, sul concedere e concedersi perdono che possono diventare squarci. E lo fa interrogandoci su quale possa essere il giusto futuro per una ex-detenuta come per un ex-detenuto. Valorizza le location inusuali di Peccioli, vicino Pisa. Gestisce attori e scena con dialoghi essenziali, tensioni tutte introspettive e pone i suoi personaggi di fronte a una scelta: stare tranquilli o rischiar d’essere felici.

Infine ci spingiamo decisamente a Oriente, almeno per l’ambientazione perché Monkey Man pur di produzione canadese e statunitense ci parla dell’India, delle sue leggende scimmiesche, della corruzione che incancrenisce il potere, di una nuova casta di reietti e di un eroe solitario tutto pugni e determinazione. L’opera prima del neo-regista Dev Patel lo vede anche protagonista assoluto in un action movimentatissimo in linea con tanto cinema di genere made in Hong Kong, e l’ameranno i fan di John Wick e Kill Bill. Dopo una vendetta andata a male, un ammaccato boxeur di combattimenti illegali troverà nuova linfa per rialzarsi diventando molto più di un semplice sicario.

Regia strettissima sui combattimenti, estenuante, quasi ascellare per la vicinanza tra obiettivo e braccia che mulinano colpi, notti al neon in stile Refn ma tanta coerenza e maturità per Patel nel raccontarci un’India suburbana e brutale dove possono ancora soffiare venti di spiritualità e libertà politica. Era partito con il suo ragazzino campione di telequiz in The Millionaire nel 2008 Patel, chissà se Danny Boyle avrà visto il film. In Italia esce il 4 aprile e in America il giorno dopo. La scommessa è anche di Jordan Peele, che avendolo scoperto già destinato alle piattaforme ha voluto distribuirlo per forza in sala con la sua company, poi appoggiato da Universal. Più di qualcosa ci dice che questa scommessa di Peele, Patel e le loro gang di indiani faranno ottimi risultati, soprattutto in Asia.

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