Questa sera Julian Assange non sarà legato alla poltrona di un aereo diretto negli Usa. Questa è, a caldo, l’unica buona notizia, tutt’altro che scontata.

L’Alta corte di Londra, chiamata a dare il via libera all’estradizione di Assange verso una prigione statunitense di massima sicurezza con la prospettiva di non uscirne più, ha ritenuto in parte fondato l’appello della difesa del giornalista.

Però, in un verdetto che opportunamente Stefania Maurizi ha definito “chiaro come l’acqua torbida”, l’Alta Corte ha dato agli Usa tempo fino al 16 aprile per fornire assicurazioni che i diritti di Assange – quelli a rischio, secondo i giudici britannici: pieno diritto di appello, non discriminazione a causa della cittadinanza, no alla pena di morte – saranno rispettati. Il tutto sarà preso in considerazione il 20 maggio in una nuova udienza.

A vederla con pessimismo, l’Alta corte non ha smentito l’intenzione di estradare Assange. Ha dato agli Usa un’opportunità in più di rassicurarla.

Nelle democrazie il giornalismo non è un reato. Quando quell’avverbio di negazione manca, siamo altrove. Siamo nella caccia all’uomo, a chi ha reso note informazioni che dovevano rimanere segrete: quelle, rivelate da Wikileaks nel 2010, circa crimini di guerra commessi dalle forze statunitensi in Iraq e in Afghanistan. Siamo nell’impunità per chi quei crimini li ha commessi e ai processi e alle condanne di chi li ha resi noti.

C’è però ancora tempo perché quell’avverbio sia scritto, nero su bianco, in una sentenza di un tribunale britannico. Più gli Usa s’incaponiscono a perseguitare Assange, più quel “non” dev’essere ribadito con forza.

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