di Alessia Manera

Ricondurre la situazione di oggi a Gaza, e più in generale in Palestina, a un problema di convivenza tra etnie, lingue, culture, religioni differenti, e quindi a un problema di sicurezza e sopravvivenza per una parte di queste componenti, è un completo fraintendimento di contesto. Si sposta infatti l’attenzione su elementi secondari, ingigantitisi in decenni di evoluzione del conflitto, che se anche oggi assumono rilevanza maggiore non si traducono comunque in concause della situazione.

La matrice coloniale del sionismo, infatti, è la vera causa del conflitto che da oltre 76 anni devasta la Palestina storica e l’intera regione, nonostante gli infiniti tentativi della stampa e della politica occidentale, e in particolare europea, di negare la realtà. E subito, quindi, ci si pone dinnanzi la necessità di distinguere non solo tra ebrei e sionismo, ma anche tra la possibilità degli ebrei di vivere in Palestina e il sionismo stesso.

In Palestina, infatti, gli ebrei hanno sempre vissuto e convissuto, come in buona parte del Vicino – Medio Oriente e del Nord Africa. Di più, all’interno dell’Impero Ottomano le comunità non musulmane (quindi ebraica e cristiana, nelle sue varie confessioni) sono sempre state trattate con una tolleranza – e addirittura accoglienza – sconosciute in Occidente.

Quindi il problema del sionismo non è quello di aver promosso una migrazione ebraica in terra di Palestina, un “ritorno alle origini” in chiave religiosa, etnica e nazionale; quanto piuttosto la volontà di costruire un’identità nazionale unica e centrifuga delle differenze, in un contesto che esprimeva invece pluralismo e complessità.
D’altronde, l’idea della “purezza nazionale” è una prospettiva dell’Europa occidentale, che ha costruito la sua identità, dalla modernità in poi, intorno ad un’omogeneizzazione dello stato-nazione dal punto di vista religioso, etnico e linguistico, che ha interpretato come arretrati i modelli di governo multietnici e sovranazionali, e riconosciuto il progresso solo nella frammentazione da un lato e nell’assimilazione forzata dall’altro.

L’alterità, in questo contesto ideologico, era sempre guardata come un qualcosa di “arretrato” nella scala evolutiva delle società, di “primitivo” o al massimo di “esotico”, termine che ancora oggi riporta a una diversità irriducibile e, in fondo, incomprensibile. L’humus culturale in cui ha preso forma il sionismo era quindi profondamente pervaso da un’idea di purezza nazionale, ben radicata nelle classi politiche occidentali tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX secolo.

La frase “un popolo senza terra per una terra senza popolo” riflette, in questo senso, l’approccio coloniale di un movimento che era disponibile a riconoscere “popolo” solo una comunità bianca e di tradizione europea: modelli culturali differenti erano, di fatto, negabili e ignorabili. Il sionismo si configura quindi fin da subito come un movimento esclusivo, impegnato ad affermare e a costruire una realtà artificiale a discapito di ogni evidenza di contesto.

Anche i riferimenti socialisti, presenti nell’organizzazione dei kibbutz, riguardano sempre e solo la comunità ebraica: la solidarietà, il senso comunitario, la collaborazione non vengono estese alle altre soggettività presenti nella regione, ma sempre mantenute all’interno della continuità etnica, anche se non religiosa, visto il laicismo professato da molti ebrei israeliani dell’epoca.

Dal 1948 ad oggi, quindi, lo Stato di Israele ha progredito inesorabilmente sulla linea di un mandato non tanto di una “terra per gli ebrei” (che si sarebbe potuto risolvere nel mero processo migratorio) ma di una “ebraizzazione della terra”, che prevedeva l’allontanamento da quella stessa terra di tutte le pluralità non riconducibili all’ebraismo. Di qui la Nakba, la colonizzazione, il muro, l’apartheid, l’assedio di Gaza, le leggi razziali che riconoscono cittadinanza piena ai soli ebrei.

La matrice coloniale di Israele non sta tanto (o almeno non solo) nell’interesse dell’occidente collettivo di un avamposto in Medio Oriente, quanto nel suo incarnare e sublimare, di fatto, l’approccio colonialista europeo dei quattro secoli precedenti. Guardate da questa prospettiva, quindi, le affermazioni degli attuali membri del governo israeliano che inneggiano alla pulizia etnica e al genocidio non suonano affatto in discontinuità con l’ideologia sionista, ma si inseriscono in modo più che lineare in tale ideologia.

Oggi, infatti, l’estremismo e il fanatismo religioso di una parte della destra israeliana sembrano venir usati del mainstream occidentale, in particolar modo da quella parte più legata alla sinistra “democratica”, per marchiare come criminale Netanyahu e “salvare” al contempo dall’accusa di razzismo, quando non di intento genocida, il resto dei politici ebrei israeliani. A ciò fanno gioco anche le forti manifestazioni di protesta contro Bibi succedutesi durante tutto lo scorso anno, dissenso che però aveva a che vedere con gli intrighi e i conflitti di interesse di Netanyahu e della sua famiglia, ma che non interessava per nulla la politica coloniale e di apartheid verso i palestinesi.

Ciò che oggi sta avvenendo a Gaza, e le stesse dichiarazioni del governo israeliano che conferma l’intenzione di proseguire con le operazioni militari sulla Striscia ancora nei mesi a venire, è quindi solo l’estremo e terribile sviluppo del percorso evolutivo di uno stato che ha fondato la sua identità sull’eliminazione e la negazione della storia e dell’identità altrui.

E in questo senso suona terribilmente vera l’affermazione del governo Netanyahu e di buona parte dei politici israeliani, rilanciata anche in occasione delle udienze alla Corte Internazionale di Giustizia adita dal Sudafrica per rischio di genocidio, per cui Gaza e la resistenza palestinese sono un pericolo esistenziale per Israele: e non perché sia a rischio la possibilità degli ebrei di vivere, crescere, studiare, votare su quella terra, che è l’interpretazione di “sicurezza” che normalmente diamo. Ma perché la presenza di milioni di arabi, cristiani, musulmani, armeni nel territorio israeliano impedisce la realizzazione di uno stato per soli ebrei, uno stato etnocratico e razzista, nel senso più letterale del termine.

Israele, in sostanza, non può esistere (o non pienamente) finché il popolo palestinese sopravvive. Nonostante questa contraddizione irriducibile, tuttavia, Israele è riuscito a gestire la situazione in Cisgiordania (grazie alla frammentazione del territorio resa possibile dalla costruzione delle colonie illegali che hanno di fatto relegato le comunità arabe in “riserve”) e alla normalizzazione dell’apartheid. A Gaza, però, dove la stessa politica risultava impraticabile avendo optato finora per la strategia della “prigione a cielo aperto”, l’unica possibilità rimanevano il genocidio e la pulizia etnica.

Un genocidio talmente evidente che una canzone che si limita a parlare di ospedali bombardati come esempio di guerra ingiusta, senza alcun riferimento di contesto (i riferimenti sono arrivati dopo), arriva a suscitare l’indignazione delle comunità ebraiche e dell’ambasciatore israeliano in Italia, con levata di scudi del CdA della Rai non a difesa della libertà di espressione, ma a tutela del rappresentante di un altro paese, che si è permesso di dire cosa si doveva dire e fare nella tv di Stato.

La strenua difesa di Israele da parte di ogni istituzione europea e occidentale, d’altronde, non può essere interpretata solo nell’ottica della difesa di interessi economici e geopolitici convergenti (che pure ci sono e sono molteplici), ma deve anche riconoscere Israele come l’emanazione più profonda di un approccio occidentale che considera di poter disporre del mondo come vuole, imponendo le proprie cornici e i propri bisogni come gli unici giusti e finanche ammissibili.

Davanti a tutto ciò che sta avvenendo in Palestina oggi, infatti, verrebbe da dire che una Repubblica fondata sulla Resistenza, un’Europa nata dalla Liberazione dal nazi-fascismo e costruita sulle ceneri di una tragedia come quella dell’Olocausto, dovrebbe essere capace di dire mai più: mai più persone che lottano per mezzo pane, che muoiono per un sì o per un no, senza più forza per ricordare. Mai più bambini ammazzati per il solo fatto di non appartenere al gruppo etnico di chi comanda. Mai più la punizione collettiva di un’intera popolazione civile.

Ma in quegli anni ’40 che hanno visto combattere la resistenza e l’Armata Rossa aprire i cancelli di Auschwitz, si combattevano dittature. Israele, si sa, è una democrazia.

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