Dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi iddio. Un modo di dire che probabilmente rimbomba nelle stanze di Bruxelles. L’economia globale rallenta, i tassi di crescita non sono più quelli di qualche anno fa, così ognuno gioca per conto proprio e a scapito degli altri. Gli Stati Uniti, prima in modo un po’ disordinato con Trump, poi con una visione strategica più ragionata con Biden, stanno giocando questa partita con notevole spregiudicatezza. Le conseguenze della guerra tra Russia ed Ucraina, nel cuore dell’Europa, non fanno altro che facilitare il tentativo di saccheggio di capacità industriale che l’America sta effettuando anche nei confronti dell’Europa. Provare non sempre è riuscire e con ciò non si vuole dire che Washington abbia in qualche modo spinto per il conflitto avendo questo obiettivo, ma semplicemente constatare che, per gli Usa, questa guerra crea quasi solo vantaggi. Non solo perché buona parte delle forniture di gas russo sono state rimpiazzate da Gnl americano o perché gli stanziamenti per gli armamenti tornano in larga quota alle industrie della difesa americane. Ma, soprattutto, perché costi dell’energia più alti hanno affossato la competitività della manifattura europea, quella della Germania (a cui è strettamente legato il tessuto imprenditoriale del Nord Italia) in modo particolare. Ora il costo del gas rivede valori non troppo distanti dalla media storica, il peggio della crisi energetica pare alle spalle, ma tutto è molto precario e un bel danno, ormai, è stato già fatto.

Mentre l’industria europea si trovava in grave difficoltà, gli Usa hanno varato, nell’agosto del 2022, il gigantesco Inflation Reduction Act (Ira), composto di sussidi ed incentivi all’industria per 400 miliardi di dollari. Soldi disponibili anche per gruppi stranieri purché portino la produzione in America. Al di là dei contenuti specifici si tratta di un tentativo di spingere la crescita dell’economia americana a scapito degli altri paesi, amici o nemici che siano. Da un certo punto di vista anche gli attriti crescenti con la Cina possono essere visti in questa prospettiva. Preso atto che i tassi di crescita globale non sono più in grado di sostenere contemporaneamente lo sviluppo cinese e il rafforzamento dell’economia americana, gli Usa hanno deciso di sganciarsi da Pechino o quanto meno di ridurre il più possibile i legami. Stando ai dati della banca mondiale gli investimenti diretti esteri in Cina sono crollati dai 344 miliardi del 2021 a 180 miliardi del 2022. In Germania si sono dimezzati a 47 miliardi. Negli Stati Uniti, che rimangono la prima destinazione di investimenti dall’estero, sono passati da 493 a 388 miliardi.

L’Ira segna uno spettacolare ritorno di politica industriale e, cosa inedita, l’uso del potere fiscale per per definire struttura produttiva e tecnologica dell’economia Usa. “È giunto il momento di una strategia industriale moderna”, aveva del resto chiarito Joe Biden prima del varo di una serie di interventi tutti destinati al re-shoring, ossia a favorire il ritorno in patria di stabilimenti e produzioni.

Inevitabilmente la prima vittima è la Germania, già in recessione e alle prese con i contraccolpi della frenata della Cina verso cui molto esporta. La cronaca economica si riempie, giorno dopo giorno, di piccoli e grandi episodi che testimoniano questo smottamento. Meyer Burger, uno degli ultimi e più grandi produttori tedeschi ed europei di pannelli e tecnologie per il fotovoltaico ha deciso di chiudere i suoi impianti in Germania. Da un lato c’è la concorrenza spietata dei prodotti cinesi, ma dall’altro ci sono gli incentivi americani. Grazie a crediti d’imposta stimati in 1,5 miliardi di dollari, Meyer Burger aprirà due nuovi stabilimenti in Colorado ed Arizona. Volkswagen sembra orientata ad aprire la sua fabbrica di batterie elettriche negli Stati Uniti, invece che in Germania. In America beneficerebbe di 10 miliardi di dollari di incentivi, se qualcuno in Europa non “pareggia” l’offerta la scelta è scontata. L’istituto tedesco Ifo stima che almeno l’8% della capacità produttiva di auto elettriche di case tedesche se ne andrà oltre oceano. E fino a qualche tempo fa l’America era il primo paese di sbocco dell’export tedesco, soprattutto auto e farmaceutica, garantendo a Berlino un surplus commerciale di oltre 60 miliardi di euro.

L’Ue ha i suoi programmi di sviluppo ma sono meno agili e semplici dell’Ira e Washington sa bene che difficilmente l’Europa sarà in grado di orchestrare un’azione a sostegno della sua industria paragonabile all’Ira (e agli altri programmi già messi in campo dalla Casa Bianca come Chips). Ad invogliare i produttori europei a solcare l’Atlantico è pure, come si accennava, il costo dell’energia, in calo rispetto ai picchi di un anno fa ma comunque ancora su valori storicamente elevati. Soffrono soprattutto i settori energivori, la grande industria, la chimica, la siderurgia. Il più grande gruppo tedesco dell’acciaio, Thyssenkrupp, lavora ad un piano di riduzione dell’organico del 20%, la chiusura di un grande forno, due laminatoi e impianti di lavorazione. La produzione è stata ridotta da 11 a 9 milioni di tonnellate e potrebbe scendere ancora, fino a 6,5 milioni, dato che è anche un termometro dello stato della domanda interna di acciaio. Il colosso della chimica Basf annuncia altri esuberi e dimezza i guadagni a causa del costo dell’energia e del calo della domanda.

In una delle sue ultime uscite pubbliche prima del termine del mandato il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha lanciato l’allarme, facendo poi quello che ha fatto per quattro anni, chiedere più soldi pubblici per l’industria. “Senza industria non c’è più Europa”, ha detto Bonomi auspicando “un documento politico molto forte dell’Europa a sostegno della propria industria”. Dobbiamo “far capire al ceto politico quanto è importante l’industria per l’Europa: senza industria non c’è più Europa. Capisco le manifestazioni degli agricoltori coi trattori ma se andiamo avanti così le faranno a piedi, non ci sarà chi fa i motori in Europa”. “Auspico – ha concluso – che dopo le elezioni europee ci sia un industrial act, un documento politico molto forte dell’Europa a sostegno della propria industria”.

Il tema dei sostegni all’industria si intreccia in vario modo con gli investimenti in difesa e anche con l’idea di creare un esercito europeo. Quest’ultima opzione non è stata mai particolarmente caldeggiata dagli Stati Uniti che, dopo la fine della seconda guerra mondiale volevano fare della Germania un’economia prettamente agricola e un paese militarmente insignificante. Il primo proposito è fallito, il secondo no. Il tempo è passato, ma una certa contrapposizione esistenziale tra Washington e Berlino non è mai del tutto tramontata. Gli Usa spingono invece perché aumentino i contributi dei paesi del Vecchio Continente nell’ambito del sistema Nato. Non è difficile capire il motivo. Un vero esercito europeo significherebbe meno dipendenza dalla protezione americana. Protezione che in più occasioni è servita anche da leva per promuovere politiche economiche e commerciali che sono andate innanzitutto a favore di Washington. Attualizzando, proprio mentre la tutela militare Usa riacquista un valore che non aveva dai tempi della guerra fredda, è difficile che l’Ue vari politiche commerciali coordinate seriamente “ritorsive” nei confronti dell’America.

Spesso gli ingenti programmi militari – emblematico il caso delle “guerre stellari” di Ronald Reagan – sono in realtà fondamentalmente politiche di incentivi industriali mascherate. Qualcosa di simile potrebbe essere pure il piano della Commissione Ue per accrescere in modo significativo gli investimenti nell’industria bellica. La guerra in Ucraina che la Germania, il paese Ue che sinora vi ha speso di più, vorrebbe si concludesse con una presa d’atto dello status quo, senza finanziare una “reconquista” da parte di Kiev, potrebbe fornire la “scusa” per aggirare soffocanti vincoli di bilancio e immettere risorse nell’economia. Il pensiero è insomma forse più alle guerre commerciali che a quelle vere.

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