Basta con il silenzio ingannevole. Nelle piccole imprese, soprattutto nei momenti di crisi e, quindi, di necessità del cambiamento, gli imprenditori preferiscono nascondere i reali problemi ai loro capi reparto (officina-divisione-funzione) per mantenere lo status di “invincibili” su cui hanno costruito la loro reputazione e storia.

Nulla di più sbagliato. Perché questa omertosa strategia di gestione delle difficoltà rafforza la resistenza al cambiamento nonostante la chiara volontà di modificare lo status quo. Molte piccole aziende, infatti, non riescono a superare il gap tra l’intenzione e l’azione a causa dell’utilizzo dei cosiddetti “nudge”. La teoria dei nudge (spinta gentile) si fonda sull’idea di incentivare delicatamente le persone verso determinate scelte, attivando sia la parte razionale che quella istintiva del cervello, senza eliminare altre opzioni e senza imporre costi elevati per quelle scelte non desiderate. I nudge non sono comandi, piuttosto incitamenti discreti. Ad esempio se voglio imporre un cambiamento nell’alimentazione, posizionare la frutta davanti agli occhi è un nudge; vietare il cibo spazzatura non lo è.

La teoria dei nudge, però, non va bene nei momenti di difficoltà. E’ uno di quei comportamenti di under-management che ho visto manifestarsi nelle piccole aziende, spesso tutti assieme, durante i miei 33 anni di attività manageriale e professionale: una gestione debole delle performance, la tendenza a evitare i conflitti con i dipendenti e, in generale, una scarsa responsabilità.

Come suggerisce il termine inglese, non si fa abbastanza gestione e i risultati spesso ne risentono. Ma l’under-management può spesso passare inosservato perché i collaboratori-dipendenti che hanno questa tendenza non sono necessariamente incompetenti; al contrario, spesso conoscono bene la loro attività, sono buoni collaboratori e benvoluti. Un piccolo imprenditore con cui ho parlato del problema ha stimato che tra il 10% e il 25% dei capi reparto della sua azienda non è in grado di gestire al meglio.

Prendiamo Franco, un responsabile dello sviluppo clienti (non è una persona reale, ma un insieme di varie persone che ho conosciuto). Conosceva bene i dettagli tecnici dei prodotti della azienda e andava d’accordo con gli altri capi reparto della sua divisione. Era un buon comunicatore – a differenza di molti altri responsabili dello sviluppo clienti della banca, più bravi sul piano tecnico che nel trattare con gli esseri umani – e al suo team piaceva lavorare per lui. Il morale era superiore alla media, a differenza di molti altri dipartimenti dell’azienda.

Ma il suo gruppo faticava a ottenere risultati. Per esempio, su progetti di grandi dimensioni avevano sempre problemi a rispettare le scadenze. Quando il capo e i colleghi di Franco ne parlavano durante le riunioni, lui sosteneva che il suo gruppo non avrebbe potuto lavorare di più, anche se gli altri manager non erano sempre d’accordo. Quando il capo di Franco o altri membri del gruppo dirigente facevano pressione su Franco riguardo ai suoi collaboratori che potevano costituire degli anelli deboli, Franco li difendeva con forza ripetendo “non ci sono anelli deboli nella mia squadra”.

Le cause di questo fenomeno sono diverse e interconnesse. Il desiderio troppo forte di piacere (e di non intaccare l’invincibilità) può ostacolare una gestione pienamente produttiva, perché può rendere i collaboratori riluttanti a fare le cose necessarie. Voler evitare un conflitto è un elemento correlato dell’equazione: il conflitto è intrinsecamente stressante e sgradevole, ed è facile pensare che, se si riesce a farne a meno, tanto meglio!

È vero che spronare i propri collaboratori e renderli responsabili di prestazioni elevate non farà vincere nessuna gara di popolarità e richiede un certo livello di confidenza con il conflitto. Ma se mantenere relazioni positive con i propri dipendenti è una buona cosa, nel lungo periodo (e soprattutto nelle fasi di crisi) la priorità è ottenere risultati. Se pensate di avere una gestione insufficiente, la buona notizia è che è possibile migliorare le proprie prestazioni in queste aree; anche se ci vuole pratica, si tratta soprattutto di una questione di volontà, più che di capacità. Bisogna innanzitutto impegnarsi!

Ma fondamentale è non cercare di evitare i conflitti. Durante i miei anni da manager di una multinazionale del credito ho avuto la fortuna di fare da mentore ad un responsabile di filiale cui dissi chiaramente che, se avesse voluto avere successo nella gestione dei problemi, sarebbe dovuto diventare più efficace nella gestione dei conflitti. Ricordo ancora le parole esatte. Lodai le sue capacità tecniche ma aggiunsi: “Francamente, non so se vuoi gestire i conflitti. Non so se hai lo stomaco per farlo”. Si rese conto che questa sarebbe stata un’area problematica e che doveva lavorarci su. Così fece, diligentemente: prese coscienza dei conflitti e non li ha più evitati. A dire il vero, ancora oggi, quando mi incontra, mi ripete che non gli piace ancora averci a che fare (alla maggior parte delle persone non piace), ma ha capito che si tratta di una parte cruciale del ruolo manageriale e con il tempo è diventato competente del conflitto con cui ha avuto un rapporto più comodo.

In definitiva, superare l’under-management nei momenti di crisi rappresenta la proverbiale situazione win-win: meglio per la vostra organizzazione e meglio per la crescita del vostro collaboratore.

Articolo Successivo

Liguria, studente in alternanza scuola-lavoro perde un dito mentre fa uno stage in una officina

next