di Leonardo Botta

Impazza su media, social e in ogni angolo terracqueo italiano la polemica tra il presidente campano Vincenzo De Luca e la premier Giorgia Meloni. Tra gli oggetti del contendere spicca l’assegnazione delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC), a detta di De Luca da tempo bloccate dal governo per la parte destinata alla Campania (sei miliardi di euro), mentre per altre regioni ‘amiche’ i cordoni del portafoglio statale sono stati più tempestivamente aperti (la questione è finita al Tar Campania, che ha dato ragione al suo presidente, mentre ora si attende l’esito del ricorso al Consiglio di Stato che sta per promuovere il governo).

Sicché De Luca, con pittoresche (è un eufemismo) dichiarazioni su tutti gli organi d’informazione e una rumorosa marcia su Roma con qualche centinaio di sindaci campani al seguito, il tutto farcito da epiteti che sono tutto un programma (Sangiuliano ministro “delle cerimonie”, Fitto altrimenti detto “Buio Fitto”, funzionari di polizia “pinguini”, senza contrare lo “str***a” all’indirizzo della presidente del Consiglio in un fuori onda alla Camera) ha riproposto in chiave moderna, e invero parecchio efficace sotto il profilo della comunicazione, l’annosa questione meridionale, accompagnando la vertenza con vibranti lamentele riguardanti le norme sull’autonomia differenziata che l’esecutivo sta varando sotto la spinta propulsiva leghista.

Non si è fatta attendere la controffensiva di Meloni, che prima invitava De Luca ad “andare a lavorare”: colpo, a mio avviso, di scarso effetto dal momento che tra i mille difetti che si addebitano al governatore, noto stakanovista, non mi risulta si annoverino il fancazzismo o la ‘sfaticataggine’. Dopodiché ne ha assestato uno secondo me ben più centrato quando, intervistata da Vespa, ha segnalato che i fondi di coesione in Campania sono stati spesi anche per “la festa del fagiolo e della patata, le sagre dello ‘scazzatiello’ e del ‘cecatiello’ (sono salernitano, ma confesso di essere dovuto andare su Google per ricordarmi che trattasi di tipi di pasta fatta a mano), la rassegna della zampogna, la festa del caciocavallo podolico”.

La replica di De Luca, affidata alle sue rituali comunicazioni social settimanali, si è ‘limitata’ a una generica accusa di “aggressione da stracciarola” da parte di Meloni; null’altro. Evidentemente questa storia dei finanziamenti a feste, sagre e rassegne è vera anche se, aggiungo io, sicuramente condivisa con molte (se non tutte) altre regioni italiane; la politica nostrana è nota per aver, nel corso dei decenni, finanziato veramente di tutto: mi viene in mente il sindaco di Reggio Calabria, Scopelliti, che allietava i suoi concittadini con feste presenziate da starlette della scuderia di Lele Mora, scavando voragini irripianabili nei già disastrati bilanci comunali.

Allora sì, la critica della premier su questo opinabile uso dei fondi di coesione (che dovrebbero aiutare il Sud a restare agganciato alla locomotiva settentrionale) è del tutto legittima e fondata, anche se un po’ ipocrita per chi guida il governo più tradizionalista della storia repubblicana (cosa c’è di più tradizionale della zampogna?). A tal proposito mi viene in mente che la maggioranza di centro-destra si accinge a ripristinare l’elezione diretta delle province: senza timore di smentite prevedo a breve un rifiorire, anche da parte delle cento amministrazioni provinciali italiane, di finanziamenti a eventi concernenti l’arancino messinese, il porceddu cagliaritano, il tortellino bolognese.

Del resto, io stesso sono cresciuto in un paesino dove a ogni festa patronale o sagra arrivava il tizio con l’apetto delle frattaglie di manzo e suino (il cosiddetto ‘pere e ‘o musso’) su cui lampeggiava la scritta “Da Peppino è sempre Festa”. Con quali soldi fare festa, è tutto da vedere.

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