Una comitiva di turisti giapponesi si guarda intorno smarrita. Sembrano chiedersi cosa stia succedendo. Hanno scelto il grand Hotel La Sonrisa di Sant’Antonio Abate (Napoli), il Castello delle Cerimonie reso famoso dai programmi di Real Time, come base del loro tour culturale tra Pompei e Napoli. Si ritrovano al centro della protesta che ha paralizzato la città, mentre si fanno spazio tra la folla davanti ai cancelli del complesso turistico per dirigersi ai taxi. Centinaia di lavoratori della Sonrisa, con le divise da lavoro alberghiere addosso, in un tripudio di fischietti e bandiere con il nome dell’albergo, stanno per marciare in direzione Municipio. Tra familiari, amici e semplici sostenitori si formerà un corteo di circa 700 persone, lungo centinaia di metri. Atteso all’arrivo come fosse una tappa del giro d’Italia: “Si vedono? Quanto manca?”.

Da qualche giorno una sentenza della Cassazione ha sancito che la Sonrisa della famiglia Polese e il parco da 44mila metri quadri, con sale per ricevimenti e per congressi, ristorante, piscina, cucine, depositi, fontane ornamentali, un eliporto e le sue cinquanta stanze in stile veneziano, monumento e mito di un popolo che si nutre di musica neomelodica ed è capace di investire per un matrimonio qui l’equivalente di anni di stipendio, è il frutto di una lottizzazione abusiva consumatasi nel corso di circa trent’anni di abusi e riabusi edilizi. Dunque deve essere trasferita nella disponibilità del patrimonio pubblico. Va insomma sottratta dalla disponibilità e dalla gestione della famiglia Polese, erede di don Antonio Polese, il ‘Boss delle Cerimonie’, il volto nazional popolare delle prime edizioni del famoso (per qualcuno famigerato) show televisivo, amico di Al Bano e di tante celebrità, tra le quali Maria Grazia Cucinotta che stamattina era qui per portare solidarietà.

Don Antonio è scomparso nel 2016 ed è ancora venerato su questo territorio. Una signora scrolla il cellulare dove conserva le sue foto e piange. “Don Antonio qui ha portato ricchezza e benessere… E lavoro, tanto lavoro…”. E di nuovo lacrime. Quel lavoro che ora i circa 150 dipendenti della Sonrisa vogliono difendere con le unghie e con i denti, terrorizzati da un futuro pieno di incognite. L’albergo è ancora aperto, su Trivago in questi giorni le stanze le danno via a 93 euro. Ma già stanno piovendo le disdette di matrimoni prenotati con mesi, anni di anticipo. La confisca dovrebbe avere come corollario lo stop delle attività, in attesa delle decisioni, dai tempi non brevi, dell’amministrazione comunale. Libera di stabilire – sono solo esempi – se demolire tutto e farne un parco per bambini o un campo di calcio, tramutarla in una caserma delle forze dell’ordine, o mantenerne la finalità alberghiera, disponendo un bando per individuare un nuovo gestore e ricavarne un fitto da reinvestire in progetti di pubblica utilità.

Sembra quest’ultima la strada più gradita alla sindaca Ilaria Abagnale, che accoglie con cortesia una delegazione di lavoratori, li ascolta con attenzione, promette di portare al tavolo della Prefettura di Napoli il problema del mantenimento dei livelli occupazionali e qualche soluzione per risolverlo. Ma ha il viso teso di chi non avrebbe mai voluto essere investita di una rogna simile. La Sonrisa a Sant’Antonio Abate infatti è come l’Ilva a Taranto: il centro di tutto, vanto e problema, fonte di orgoglio e di polemica, motore e ricircolo di lavoro e finanziamenti e indotto diffuso che da sostentamento a migliaia di famiglie. Cosa fare? Domani se ne parlerà in Prefettura.

La sentenza non è stata ancora notificata al Comune e fino a quel momento La Sonrisa può restare aperta. Quella appena conclusa è una protesta dei dipendenti: i Polese invece sono in silenzio, un passo indietro. Sullo sfondo. Parla per loro l’avvocato Vincenzo Maiello: “Ci rivolgeremo alla Corte europea dei diritti dell’uomo che confidiamo stabilità la declaratoria dell’illegittimità della confisca”. La procura di Torre Annunziata guidata da Nunzio Fragliasso ha già chiarito che l’eventuale ipotesi di disporre un bando pubblico per la gestione del complesso non può avere la (ex) proprietà tra i concorrenti. La Sonrisa non può essere lasciata a chi ha commesso i reati (prescritti) intorno alla sua costruzione. La confisca ovviamente riguarderà solo l’immobile. E i suoi interni? Le cucine che sono in grado di sfornare duemila pasti alla volta? E soprattutto: di chi è il brand “Sonrisa”? Dei Polese, per quel che si apprende tra i corridoi del municipio. Ed allora: per quale ragione un altro imprenditore turistico dovrebbe scommettere sul rilancio di un hotel con la fama di essere abusivo, sequestrato dalla magistratura e persino, eventualmente, privato del marchio di successo che sinora lo ha caratterizzato tra festival canori e reality?

Ecco perché i dipendenti hanno paura. “Noi vogliamo lavorare”, “la Sonrisa è casa nostra”, “la Sonrisa siamo noi”, hanno scandito durante la marcia. Non si sono viste bandiere di sindacati. In prima fila, c’era un signore che lavora lì da 35 anni: “L’ho vista nascere, l’ho vista crescere come sono cresciuti i miei figli”. C’è anche Nino Davide, la storica spalla del ‘Boss delle Cerimonie’. Intorno al corteo ronzavano decine di tiktoker napoletani. E neomelodici, diversi, che qui hanno cantato per decine di matrimoni. Uno per tutti, Lello Marino, che si fa intervistare dagli youtuber ripetendo che “La Sonrisa è un grande orgoglio campano”, distribuendo biglietti da visita. E quando il cronista prova a ricordare, per chiedere un commento ai passanti, i trascorsi di don Antonio Polese, la condanna a 2 anni e 8 mesi per favoreggiamento a Raffaele Cutolo, i legami con gli uomini di fiducia del boss, quasi gli mettono le mani addosso. L’argomento è tabù.

A sentenza di Cassazione ancora fresca, il deputato Avs Francesco Borrelli ha definito la storia della Sonrisa “una delle vicende più inquietanti relative all’infiltrazione della camorra nel tessuto economico della nostra regione”. Parole forti. Ma come e quando nacque la Sonrisa, e come è diventata quel che è oggi? La risposta è nel decreto di sequestro firmato nel 2011 dal gip di Torre Annunziata Nicola Russo, uno dei magistrati del collegio che ha condannato in primo grado Silvio Berlusconi per la compravendita dei senatori: “Dal 1979 in poi su questa vasta area, ove fino ad allora era presente solo un fabbricato rurale, è stata compiuta un’attività edilizia, in assenza di titoli abilitativi o di titoli emessi in maniera illegittima, in violazione delle più elementari norme edilizie ed urbanistiche e della normativa a tutela del paesaggio, che ha portato alla realizzazione di una imponente consistenza immobiliare con lo stravolgimento urbanistico dell’area”.

Secondo il giudice “un illecito intervento edificatorio così colossale è stato possibile grazie alla quasi totale assenza di controlli e vigilanza” che ha consentito “lo stratificarsi negli anni di un’attività illecita che, anziché essere indebolita dall’evidenza degli abusi, si è al contrario rafforzata facendo apparire l’interesse privato degli indagati assolutamente prevalente rispetto all’interesse pubblico…”. Ci furono insomma delle coperture a diversi livelli, compreso quello politico. Tempi ormai lontani.

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