Il Consiglio Ue ha aggiornato la lista dei paradisi fiscali extra europei. Dall’elenco che viene compilato dal 2017, sull’onda dello scandalo dei Panama Papers, escono Bahamas, Belize, Seychelles e Isole Turks e Caicos. La decisione è stata sancita nel corso del Consiglio Affari Generali e la luce verde è arrivata dopo aver valutato che le quattro giurisdizioni si sono adeguate agli impegni chiesti da Bruxelles, cominciando a cooperare con l’Unione a fini fiscali. Nella lista nera restano Samoa americane, Anguilla, Antigua e Barbuda, Figi, Guam, Palau, Panama, Russia, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini americane e Vanuatu, che non hanno avviato un dialogo costruttivo con l’Ue sulla governance fiscale o non hanno mantenuto gli impegni presi sulle riforme finalizzate ad aumentare trasparenza ed equità della tassazione e prevenire l’erosione della base imponibile e il trasferimento dei profitti.

Resta il fatto che i Paesi usciti dalla lista continuano a non brillare per virtù. Le Bahamas e le Isole Turks e Caicos, spiega il comunicato del Consiglio, sono state “salvate” solo perché l’ultima valutazione del Forum delle pratiche fiscali dannose dell’Ocse ha ammorbidito le raccomandazioni che aveva loro rivolto per rimediare a carenze nell’applicazione del requisito della sostanza economica. Quello che richiede di non facilitare la creazione di strutture offshore a cui attribuire profitti che non riflettono la reale attività svolta nel Paese. Quanto a Belize e Seychelles, che erano entrate tra i paradisi lo scorso ottobre, ora ne escono “in attesa dell’esito” di una revisione della loro situazione da parte del Forum, dopo alcune modifiche normative.

Lo strumento della blacklist è ritenuto di gran lunga troppo debole dalle organizzazioni impegnate per la giustizia fiscale. Oxfam, in prima linea nella richiesta di una lotta efficace contro i paradisi che consentono a super ricchi e multinazionali di evadere o eludere il fisco alimentando disuguaglianze e sottraendo risorse con cui finanziare i servizi pubblici, la ritiene non all’altezza delle intenzioni. “In linea di principio, è positivo che l’Ue abbia deciso di identificare formalmente paesi non cooperativi ai fini fiscali e di dotarsi di misure difensive e sanzionatorie”, commenta Mikhail Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia. Ma “la lunghezza – appena 12 paesi – è disarmante. Tanti gli assenti illustri, dalle Isole Cayman alle Bahamas, da Bermuda a Jersey, inclusi invece da Oxfam e dal Tax Justice Network tra i paradisi fiscali societari più aggressivi al mondo”. E soprattutto “le giurisdizioni europee, come il Lussemburgo o Malta, non sono neppure soggette a scrutinio. Non c’è da stupirsene, visto che i criteri di blacklisting dell’Ue hanno forti profili di criticità. Ad esempio, una giurisdizione che non assoggetta a tassazione i redditi societari come le Isole Vergini Britanniche non finisce automaticamente sulla lista nera. Da tempo si discute inoltre, senza successo, dell’opportunità di introdurre un ulteriore criterio di valutazione incardinato sulla trasparenza dei titolari effettivi di società, fondazioni e trust: potrebbe mettere sotto pressione Paesi che agevolano l’occultamento di asset patrimoniali per i non residenti, rafforzare l’azione di contrasto all’evasione fiscale internazionale e garantire l’effettività di imposte come quella sui grandi patrimoni promossa da Oxfam in collaborazione con Il Fatto Quotidiano.

Anche la Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation ha criticato la lista sottolineando che l’Europa dovrebbe guardare al proprio interno. Del resto la stessa Commissione qualche anno fa ha acceso un faro su sei Stati membri le cui strategie favoriscono l’elusione fiscale: si tratta di Irlanda, Lussemburgo, Malta, Cipro, Paesi Bassi e Ungheria. Che sottraggono ai “vicini” più risorse rispetto ai piccoli paradisi. Secondo il primo Rapporto sull’evasione fiscale globale dell’Eu Tax Observatory guidato da Gabriel Zucman nel solo 2020 sono stati trasferiti in Paesi Bassi e Irlanda, rispettivamente, 180 e oltre 140 miliardi di dollari di profitti contro i 60 approdati alle isole Vergini e i meno di 20 arrivati alle Cayman.

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