Un nuovo spettro si aggira a Milano: il blocco della rigenerazione urbana. Inflazione e rialzo dei tassi – e quindi mutui inarrivabili – ostacolano il mercato della compravendita: i cartelli Vendesi languono per mesi sui portoni, forse anche perché l’ubriacatura da prezzi folli rende i proprietari restii a scendere a compromessi. Ma soprattutto le recenti inchieste giudiziarie sulle torri di via Stresa e via Crescenzago e l’edificio di Piazza Aspromonte hanno compromesso quello che potremmo definire il brand implicito della città, cioè la fama di paradiso fiscale e normativo dell’immobiliare. Nel mondo degli investitori del real estate, infatti, la reputazione è tutto: Milano era attrattiva perché si pagavano gli oneri di urbanizzazione più bassi d’Europa e perché le istituzioni pubbliche si sono date la missione di rimuovere ogni impedimento burocratico alla costruzione di nuovi edifici. Ora che gli occhi dei giudici si sono posati sui cantieri e sulle carte la finanza e i costruttori cominciano a ritrarsi sfiduciati, o per lo meno questo è quello che paventano i politici e i gruppi di interesse legati al dogma della massimizzazione della rendita, alla valorizzazione del metro quadro che tanti dolori infligge alla popolazione milanese.

La quale popolazione, invece, dovrebbe almeno in parte gioire di questa perdita di fiducia da parte dei mercati, sfruttarla come occasione per fare pressione sui governanti indeboliti e cambiare i rapporti di forza, costringerli a cambiare le leggi e i regolamenti a proprio favore. Nessuno si augura la depressione e il crollo totale, ma finché continua incessante questa crescita senza sviluppo, fondata sullo sfruttamento delle risorse ambientali e degli abitanti, sulla concentrazione della ricchezza anziché sulla sua redistribuzione, sull’espulsione fisica dei ceti fragili è quasi impossibile non solo ribaltare la situazione, ma anche solo negoziare per ottenere un minimo di giustizia sociale e ambientale.

Un rallentamento della pressione immobiliare è quindi auspicabile. Dopo anni di culto della densificazione, per la prima volta a Milano si ricomincia, grazie alle inchieste, a parlare di “carichi urbanistici”. Una coppia di parole bellissima, che suona strana o desueta ma ha un significato limpido: a mano a mano che la città diventa più costruita, più densa, più popolata, gli abitanti hanno diritto ad avere più servizi nei quartieri, più scuole, parchi, ambulatori, ospedali, centri sportivi, piscine, trasporti pubblici. Un diritto che è normato in modo chiaro e semplice dalla legge sugli standard urbanistici, varata nel 1968 in seguito a battaglie civili sanguinose, in linea con altre città europee: ogni abitante ha diritto a 18 metri quadri di spazio pubblico dedicato a servizi pubblici e verde.

Il contrario esatto di quello che si è fatto da Albertini a Sala: i milioni di nuovi metri cubi calati sul territorio, attraverso i grandi progetti o la sostituzione minuta di villette, piccoli magazzini, box monopiano con palazzi e torri sono stati accompagnati dalla cancellazione o privatizzazione delle attrezzature pubbliche e da un labirinto normativo ambiguo e contraddittorio, sempre più incomprensibile per il comune cittadino o anche per professionisti e tecnici pubblici e privati, ma utilissimo per gli investitori in grado di sfruttare con abilità i cavilli e le zone grigie del diritto.

Il successo di queste politiche è all’origine di una possibile crisi strutturale: gli abitanti si stanno accorgendo che il trasporto è meno efficiente, le scuole più segregate, le biblioteche meno aperte, i parchi e le piazze perennemente occupati da padiglioni e bancarelle, gli spazi culturali sempre più ibridati con eventi e attività commerciali, sottratti alla loro funzione pubblica. In altre parole, che non si sta andando verso nessuna “città a 15 minuti”, ma verso una città più difficile da vivere, inaccessibile. Lo scontento dilaga. Se poi le accuse dei pm diventassero sentenze, molti nuovi palazzi irregolari potrebbero essere dichiarati abusivi, condannati alla demolizione o all’acquisizione da parte dell’amministrazione, gettando nel panico proprietari e circuiti immobiliari, oltre all’amministrazione.

“Never let a good crisis go to waste”, mai sprecare una crisi, ripetono spesso a proposito o a sproposito, i politici. Una crisi offre strumenti speciali per fare cose impensabili in tempi di stabilità. Di sicuro la giunta Sala sta tentando di volgerla a proprio favore e di consolidare attraverso leggi sempre più estreme la direzione intrapresa. Con la revisione del Piano di governo del territorio (PGT) vuole incrementare le defiscalizzazioni, facilitazioni, incentivi rivolti agli attori della rigenerazione, svincolandoli dai costi degli standard. Con la “strategia per la casa”, elaborata da Maran, cerca di liberarsi dal peso (preziosissimo invece, base indispensabile per qualsiasi politica di calmieramento dei prezzi del mercato) del patrimonio di case popolari (Edilizia residenziale pubblica, ERP). In parte trasformandolo in ERS, cioè housing sociale rivolto a fasce di reddito intermedio, con un canone più basso del valore del mercato ma troppo alto per le famiglie in attesa da anni di una casa pubblica. In parte attraverso il bando “Case ai lavoratori”, che destina le case vuote ad aziende e cooperative in grado di ristrutturarle e affittarle come welfare aziendale ai propri dipendenti. Togliendo cioè le case ai poverissimi per darle ai lavoratori, ma con l’esoso canone concordato milanese.

Ma il progetto più pericoloso è la costituzione di una società pubblico-privata (Società casa) pensata per valorizzare – cioè svendere – una parte delle migliaia di alloggi sfitti del Comune attraverso la creazione di un fondo per il 30% Invimit, e con il ricavato ripararne altri, da trasformare parzialmente in housing sociale. Al ritmo di centinaia di alloggi che si liberano ogni anno questo meccanismo innescherebbe una spirale di erosione accelerata dell’edilizia pubblica, mentre la forbice delle disuguaglianze aumenta e la precarietà dilaga. Un’ipotesi che, se si concretizzasse, costituirebbe un punto di non ritorno per il diritto all’abitare, perché quando sfumano le distinzioni tra pubblico e privato diventa molto più difficile individuare responsabilità e reclamare diritti. La complessità delle istituzioni miste sembra fatta apposta per offuscare la già carente trasparenza e la logica della redditività prevale inesorabile.

Ma se vale per chi governa, il detto vale anche per chi è governato. Si può e si deve sfruttare questo momento per contrastare la produzione così rapida di leggi nefaste, e imprimere una svolta politica e legislativa che potrebbe dare un segnale importante anche alle altre città che imitano stoltamente le pratiche milanesi, come nella Parabola dei ciechi di Pieter Brueghel il Vecchio. La distruzione delle norme urbanistiche, la resa del pubblico al privato, la deresponsabilizzazione mascherata da sussidiarietà non portano bene, rappresentano un modello autodistruttivo non solo nel lungo, ma anche nel medio periodo. Milano docet.

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