Dopo quasi nove anni di frontiera solo apparentemente inaccessibile ai migranti provenienti dall’Italia, la Francia ha messo fine ai respingimenti sistematici, segnando un inaspettato ritorno al rispetto delle normative comunitarie sull’immigrazione. Il cambio di rotta, che in queste settimane ha comportato un crollo del numero delle persone “rimbalzate” in Italia, è stato imposto dalla sentenza del Consiglio di Stato francese del 2 febbraio. È stato accolto il pronunciamento della Corte di Giustizia europea, che lo scorso settembre ha censurato i respingimenti forzati, e abrogato l’articolo che istituiva il regime eccezionale dei “Refus d’entrée”, respingimenti diretti e collettivi in deroga a qualsiasi norma comunitaria e convenzione internazionale.

Ancor prima che manifestasse i suoi effetti alla frontiera franco-italiana, la modifica normativa è stata segnalata con un comunicato dal Cafi, coordinamento di associazioni francesi che include, tra le altre, Amnesty, la Cimade, Medecins du Monde, Medicins sans frontieres e Caritas. Organizzazioni che monitorano e tutelano i diritti delle persone in transito ai confini francesi e sostengono gli operatori impegnati sulle frontiere. “Si tratta di un ritorno alla normativa pre-2015, ovvero al rispetto dell’accordo bilaterale di Chambery – spiega al Fatto Quotidiano Agnes Le Rolle, giurista specializzata in diritto sanitario e dell’immigrazione e responsabile del Cafi -. Questo dovrebbe porre fine ad anni di pratiche di detenzione illegale e di violazione dei diritti alle frontiere interne, reso possibile da un articolo del codice che consentiva il rifiuto dell’ingresso ‘in ogni circostanza e senza distinzioni’”. Un regime d’emergenza ritenuto ingiustificato e illegittimo, prima dalla Corte Europea e adesso dal Consiglio di Stato.

Considerata la “capacità” mostrata negli scorsi anni dalla Francia di incassare sentenze analoghe senza modificare le sue pratiche, operatori e attivisti solidali si sono detti sbalorditi dal verificare in questi giorni un effetto concreto al confine franco-italiano. “Nei primi 15 giorni di febbraio si registra un quinto del numero dei respingimenti osservati a gennaio – condivide i dati raccolti Jacopo Colomba di WeWorld, sulla frontiera fin dai primi giorni di ‘blocco’ ai Balzi Rossi – da una media giornaliera di 45-50 persone “rimbalzate” in Italia a una decina”. La maggior parte delle persone identificate vengono rilasciate sul territorio francese, alcune (prevalentemente eritrei e sudanesi) vengono “addirittura” invitate a raggiungere le “Pada”, le Piattaforme di accoglienza e domanda d’asilo di Nizza e Marsiglia, per regolarizzare la propria posizione. È il banale rispetto delle normative, che diventa notizia dopo quasi un decennio di abusi giuridici.

“Vedremo se e quanto durerà, è presto per trarre conclusioni e la continua militarizzazione resta un elemento critico – continua Colomba – ma il fatto che finalmente, dopo anni di denunce in tutte le sedi, il Consiglio di Stato francese riconosca che avevamo e abbiamo ragione noi operatori e organizzazioni non governative è un passo enorme, e conferma in via giudiziaria quanto il sistema di respingimento francese fosse illegittimo e contrario alle disposizioni europee”. Da Parigi, il ministro degli Interni Gérald Darmanin si guarda bene dal rilasciare dichiarazioni in merito, e questo cambiamento giuridico ad oggi non comporta lo smantellamento dell’imponente dispositivo di militarizzazione che continua ad essere allestito alla frontiera franco-italiana.

Lo scenario, ad ora, resta quello ormai noto: una cinica farsa sulla pelle dei migranti. Il flusso di persone in transito continua ad essere intercettato e filtrato con i “consueti” criteri di profilazione razziale, ma oggi, a cambiare radicalmente è l’esito di questi controlli. Il numero di riammissioni è crollato perché gli operatori della Police aux Frontières (Paf) devono rispettare i passaggi burocratici previsti dal Trattato bilaterale di Chambéry del 1997: “Per consentire la riammissione in Italia di una persona entrata irregolarmente in territorio francese – spiega Agnes Le Rolle – la Paf deve raccogliere diversi elementi da anticipare agli omologhi italiani. Non solo i dati relativi all’identità e alla nazionalità della persona interessata: servono documenti che stabiliscano con certezza il diritto della persona a soggiornare in Italia o prove inconfutabili che permettano di stabilire il passaggio nel vostro paese”.

L’Italia ha 48 ore di tempo per rispondere alle singole richieste di riammissione e, solo dopo aver ricevuto una risposta affermativa, gli agenti francesi potranno riaccompagnare, singolarmente, le persone negli uffici della polizia di frontiera italiana.
“Le persone possono comunque decidere impugnare il decreto di riammissione, usufruire di avvocato e interprete, e presentare domanda di asilo”, specifica Le Rolle. “La situazione è molto recente e del tutto nuova – mette le mani avanti Jacopo Colomba – dobbiamo raccogliere più informazioni per capire se quello a cui stiamo assistendo sia un cambiamento definitivo oppure (come temiamo) solo una fase di ‘riorganizzazione’ del dispositivo di respingimento francese, che a parole il governo transalpino ha sempre dichiarato di voler rafforzare”. Per valutare gli sviluppi in modo concreto, sarà necessario attendere il “consueto” aumento dei flussi migratori previsto in primavera. L’ultimazione, a gennaio, di un’area di “trattenimento” destinata a persone in attesa di riammissione in Italia presso la frontiera di ponte San Ludovico suggerisce che il governo transalpino possa considerare un approccio più flessibile, adattando le restrizioni in funzione della consistenza dei flussi migratori.

Articolo Precedente

Presidio di protesta a Milano per la morte di Navalny: “Era la nostra speranza e Putin lo ha ucciso”

next
Articolo Successivo

Crollo cantiere a Firenze, recuperato il quarto morto: continuano le ricerche dell’ultimo disperso. L’ipotesi: “Due di loro irregolari”

next