Prosegue il progetto di Neuralink, capitanato da Elon Musk. L’obiettivo? Ottenere un chip da impiantare nel cervello umano, con lo scopo di assistere le persone con malattie e disturbi neurologici che compromettono il movimento, successivamente migliorando anche abilità cognitive come la memoria e lavorando sulla comunicazione.

Negli anni scorsi decine di (ex) impiegati di Neuralink hanno dichiarato di essere stati sottoposti a costanti pressioni da parte di Musk per accelerare gli studi e le operazioni, fattore che ha portato alla morte di centinaia di animali coinvolti (in particolare topi, pecore, maiali e scimmie) a causa di errori umani che potevano essere evitati, nonché alla presentazione di risultati ottenuti in modo piuttosto approssimativo. Quando si parla di tecnologie sanitarie la trasparenza e l’accuratezza nella fase di animal testing sono al primo posto per avere contezza degli effetti a breve e a lungo termine; per questo, il comitato medico per la medicina responsabile (Physicians Committee for Responsible Medicine) aveva richiesto di porre Neuralink sotto vigilanza per possibili violazioni dei protocolli.

L’Fda aveva rifiutato la richiesta ricevuta alla fine del 2022 dalla compagnia di Musk per il passaggio alla sperimentazione sugli esseri umani, ma a maggio scorso l’agenzia governativa ha cambiato rotta e autorizzato a proseguire, nonostante molti scienziati coinvolti nel progetto avessero abbandonato la nave. Di recente la notizia: il primo chip wireless è stato impiantato nel cervello di un primo soggetto umano, a seguito di una call per volontari rivolta a persone tetraplegiche o con sclerosi laterale amiotrofica. Questa terza fase della sperimentazione durerà sei anni.

I 64 filamenti del piccolo dispositivo – più sottili di un capello – andranno a interagire con la parte del cervello che controlla l’intenzione del movimento. Da qui, la persona potrà dirigere con il pensiero il movimento di una carrozzina elettrica o il proprio smartphone, interagire con i sussidi per la comunicazione o software di qualsiasi tipo. Non a caso il prodotto di Neuralink è chiamato Telepathy, telepatia. Di fronte a questo scenario apparentemente idilliaco, si badi bene a non dipingere Telepathy come la grande rivoluzione che aiuterà tutti i malati del mondo… non abbiamo a che fare col Che Guevara dei miliardari.

A livello etico ci muoviamo in un territorio non proprio inesplorato (si lavora già con chip di questo tipo, anche sul morbo di Parkinson o sull’epilessia), ma comunque ai suoi primi passi. Se apparentemente gli effetti di Telepathy sulla tetraplegia possono sembrare miracolosi, altrettanto strabiliante è spingersi a immaginare quanti altri usi si potrebbero fare di un apparecchio del genere se quest’ultima fase dovesse andare a buon fine. Dalle questioni più pratiche, ad esempio guidare un’auto col pensiero o creando opere al computer con la mente – eliminando completamente l’”ostacolo” dell’interfaccia utente – fino a scenari da Black Mirror come il poter accedere ad alcuni aspetti del cervello tramite dati raccolti dal chip o vendere ad aziende dati su reazioni e intenzioni cerebrali in relazione a stimoli, suoni o eventi di un certo tipo.

Nuove frontiere del neuromarketing per cui saranno necessarie linee guida etiche molto chiare, prima che sia troppo tardi, sulla cosiddetta mental privacy, cioè l’accesso ai pensieri. In aggiunta, da non trascurare sarà l’impatto, tanto caro agli Usa, che ricerche di questo tipo possono avere sul settore militare.

In relazione al progetto, Musk aveva annunciato di voler accorciare le distanze tra le capacità umane e quelle artificiali; su semplici affermazioni di questo tipo si genera una grande riflessione sull’enhancement, il potenziamento umano. Se negli ultimi decenni tanto è stato detto sul potenziamento di tipo biologico e genetico (impianto artificiale dell’embrione, isolamento dei geni e tecnologie del dna ricombinante, rischi dell’eugenetica migliorativa etc.), oggi bisogna fare i conti con l’eccezionale possibilità di migliorare le prestazioni umane – andando oltre gli aspetti che consideriamo propri della natura umana – attraverso l’impianto di neurochip e nanotecnologie.

Per tanti si tratta di scenari quasi fantascientifici, eppure molte scoperte scientifiche risalenti anche a secoli fa potrebbero essere considerate human enhancement, prima tra tutte quella degli occhiali, poi anche l’uso di farmaci per facilitare la concentrazione o il sonno, fino alla chirurgia plastica. Ci siamo abituati alla presenza di queste tecnologie, non le percepiamo più come una modifica alla natura umana; qualcuno potrebbe dire che per queste ultime, così come per l’invenzione di Neuralink, è necessario tenere fermo il legame con un trattamento terapeutico: l’uso, dunque, sarebbe legittimo solo se destinato a persone con problemi diagnosticati e certificati, esattamente come dovrebbe essere per gli occhiali, le terapie per i disturbi dell’attenzione e… la chirurgia plastica? Lascio a ciascuno la riflessione su quest’ultimo aspetto.

Volendo provare a superare l’argomentazione del “solo a uso terapeutico”, un aspetto che ci avvantaggia nel quotidiano è l’enablement, cioè il “rendere possibile un’azione”. Questo concetto è strettamente legato a quello di potenziamento, ma più semplice da accettare perché non implica necessariamente una modifica alle parti costitutive dell’essere umano. Uno smartphone permette (enables) di telefonare a chiunque, ovunque e in qualsiasi momento; oppure uno spazio cloud consente di (enables) avere dati sempre con sé a disposizione. È uno strumento che “sblocca” nuove possibilità, come in un videogame, e proprio così farebbe una neurotecnologia, tipo Telepathy.

La bioetica più liberale vorrebbe in effetti sbarazzarsi del termine “enhancement” per utilizzare invece “enablement”, senza rendere le modifiche alla natura umana in sé un ostacolo inaccettabile e insormontabile. In effetti, già alla fine degli anni ‘90 il filosofo J. Harris scriveva che “la natura umana è semplicemente la natura degli umani attualmente esistenti. Essa cambia ed evolve continuamente e noi siamo molto diversi dai nostri antenati. I nostri discendenti, se la specie sopravvivrà, saranno diversi da noi in un senso che non siamo in grado di predire. Noi siamo cambiati e possiamo cambiare ancora radicalmente senza per questo cessare di essere umani”.

Attenzione! Quest’idea non autorizza a procedere verso il progresso senza alcuna vigilanza, anzi ci chiede di muoverci a piccoli passi, tenendo la società civile e i media sempre partecipi e ben informati e la comunità scientifica all’erta e prudente, soprattutto in relazione alle ricerche il cui esito non intacca solo strettamente il tema della salute. Sono curiosa di scoprire il futuro di Telepathy e simili, eppure preferirei che la ricerca sanitaria svolta nelle università pubbliche avesse più fondi e più teste, per proseguire alla stessa velocità dell’uomo più ricco del mondo.

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