Scrivo questo diario alle tre di notte del 26 gennaio. Sto dormendo sul mio letto nella tenda con la mia famiglia, ci piove dentro e l’acqua ci bagna. Sfoglio il mio album di foto e ripercorro i momenti passati della mia vita prima del 7 ottobre. La mia festa di laurea, i miei amici, i miei compleanni. La mia stanza, casa nostra, e per l’ennesima volta mi ricordo che sono sfollata qui in una tenda nell’estremo sud di Rafah, e che mi sento proprio come qualsiasi sfollato che ha dovuto lasciare casa sua costretto dalle armi e dal terrorismo sionista.

Gli sfollati qui sentono notizie su una possibile tregua e mi chiedono le ultime notizie, perché io esco ogni giorno per lavorare con le organizzazioni internazionali. In realtà io non so quali siano gli ultimi sviluppi. Inizio il mio lavoro dalle nove del mattino e vado avanti fino alle quattro di pomeriggio, non ho la possibilità di guardare le notizie e neanche di mangiare, perché sono subissata dalla quantità di richieste che mi arrivano dalle donne per gli integratori alimentari che distribuisco nel mio lavoro con il Programma alimentare. A causa del mio lavoro a contatto diretto con persone bisognose rischio la mia salute personale e quella di tutti i colleghi per l’insorgere di epidemie. La cosa sconvolgente è che qui non si riesca a distinguere chi è portatore di una malattia contagiosa, e a riconoscere una persona affetta dalla malattia.

Quando finisco di lavorare mi siedo per strada per un’ora per connettermi a Internet, completare alcuni compiti e inviare messaggi rassicuranti ai miei amici che si trovano dentro Gaza o fuori, e per inviare a voi questo diario.

Certe volte penso che questo diario risulti ormai sempre lo stesso, sempre uguale. Il fatto è che da qualche tempo ho perso la capacità di esprimermi. L’ultima cosa che desidero ora è che io, la mia famiglia e i miei cari stiamo bene fino alla fine di questa guerra, e che si abbiano notizie del mio amico Ibrahim Joudeh, di cui ho perso i contatti dal 10 dicembre.

Trascorro sette ore della mia giornata seduta come nella foto qui a fianco. Indosso la mascherina, che è tutto ciò che posso usare per proteggermi mentre registro i dati dei beneficiari del programma alimentare. Mi colpisce ogni volta sentirli raccontare la loro situazione. Una donna mi dice che ha perso il marito durante la guerra e non ha documenti ufficiali, un’altra che suo figlio è nato durante la guerra e non ci sono documenti ufficiali che ne attestino l’esistenza. Cerco di mostrare i miei sentimenti di rammarico per tutti coloro che stanno vivendo questa situazione.

Ma non ho molta empatia per nessuno. L’esaurimento dei miei sentimenti in questo periodo è diventato evidente, dipende tutto quello che sto vivendo. Mi fa male anche l’idea di lasciare mia madre da sola e non aiutarla a sbrigare i lavori domestici, e questa è una grande responsabilità per mia madre, che cerca di procurare da mangiare e da bere alla mia numerosa famiglia.

Ho difficoltà a relazionarmi con i colleghi di lavoro o con le persone che assistiamo. Proveniamo da zone diverse e anche le nostre famiglie sono di culture diverse, questo mi rende cauta nel pronunciare qualsiasi parola che possa essere fraintesa da qualcuno.

Nei prossimi giorni inizierò un altro lavoro con un’organizzazione italiana che si occupa di fornire cibo agli sfollati nei campi a sud di Rafah. Il mio compito sarà di fotografare e scrivere rapporti giornalieri per i media e le piattaforme di comunicazione. Spero di avere le energie necessarie per tutto questo.

E a tutto ciò si aggiunge che ieri sera siamo stati sommersi dalla pioggia. A causa del forte acquazzone, l’acqua si è infiltrata nella nostra tenda e abbiamo passato la notte così: dalle tre del mattino fino all’alba, svegli e cercando posti dove l’acqua non fosse arrivata per sederci.

Aya Ashour

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