Invecchia la società italiana e ha sempre più bisogno di cure. Ma invecchiano anche i medici che mancano di nuovi ingressi e investimenti sufficienti per fornire le cure a tutti e fermare le dimissioni di chi sceglie di scappare dal pubblico. A ribadirlo sono i dati Istat che certificano una situazione di grande affanno: i nostri medici, infatti, sono i più vecchi se paragonati agli altri Paesi Ue. Male anche per quanto riguarda i presidi sui territori: siamo al quattordicesimo posto per numero di medici ogni 100mila abitanti (dietro Austria, Germania e Spagna). Dopo il Covid, sono aumentati gli studenti e chi accede ai corsi di specializzazione, ma non abbastanza i professori né i ricercatori. Infine, sono cresciute le dimissioni dal Sistema sanitario nazionale (oltre 10mila nel 2021) e il 30% di queste sono da imputare a scelte volontarie per passare al privato o andare all’estero. Un quadro sempre più preoccupante e al quale, per ora, la politica continua a non dare risposte adeguate. “L’aumento della pressione sul sistema sanitario”, scrive la nota dell’Istituto nazionale di statistica evocando l’aumento dell’età demografica, “richiederà un attento sforzo di programmazione delle politiche, che dovrà coinvolgere anche i percorsi di istruzione e formazione, al fine di rispondere alla domanda crescente di cure ed evitare al contempo la creazione di un ‘imbuto formativo’ e di un possibile ‘imbuto occupazionale'”. Uno sforzo invocato da medici ed esperti, per il momento senza risultati.

I medici più vecchi d’Europa e medicina territoriale in affanno – A certificare l’anzianità dei medici italiani sono i dati messi a confronto con quelli degli altri Paesi. Nel 2021, il 55,2% del personale aveva più di 55 anni, a fronte del 44,5% in Francia, del 44,1% in Germania, del 32,7% in Spagna. Inoltre, è confermata la sofferenza italiana in termini di disponibilità di dottori: l’Italia si colloca al quattordicesimo posto tra i Paesi Ue per numero di medici ogni 100mila abitanti (410,4). Si tratta comunque di una dotazione più elevata rispetto a quella della Francia (318,3) e del Belgio, anche se inferiore a quella registrata in Austria (540,9), Germania (453), Spagna (448,7).

Dove si vede di più la carenza italiana è sul fronte della medicina territoriale e quindi sui medici di base: sono stati uno degli anelli deboli durante la pandemia e ancora non si vedono segnali di inversione di tendenza. In Italia nel 2021 se ne contavano 40.250, in calo di quasi 6mila unità rispetto a dieci anni fa: sono oggi 68 ogni 100mila abitanti, erano 76 nel 2012. Una quota che è inferiore rispetto alla Germania (72,8), all’Austria (74,8), alla Spagna (94,4) e alla Francia (96,6). Nel nostro Paese, segnala l’Istat, è aumentato di conseguenza anche il carico di assistenza per ogni medico di base: nel 2021 il 42,1 per cento ha più di 1500 assistiti (era il 27,3 dieci anni prima). Si segnala inoltre che l’area meno coperta da medici di medicina generale è il Nord, passato da 71 ogni 100mila abitanti del 2012 a 62; mentre nel Centro e Mezzogiorno i valori sono rimasti più o meno simili (da 74 a 73.1).

Specialisti? “Ritmo di invecchiamento sostenuto” – Per l’Italia le cose vanno meglio sul fronte degli specialisti. In questo ambito, spiega l’Istat, il nostro Paese conta 328,3 medici ogni 100 mila abitanti. E così si posiziona davanti a Austria (300,7), Spagna (277,6) e Francia (180,0). Sul fronte dell’età però, la situazione rimane critica. La percentuale di specialisti over 54 supera il 50% tra i cardiologi, i ginecologi, gli internisti, gli psichiatri e soprattutto i chirurghi (58,6%). E in generale, si legge nella nota dell’istituto, “diverse altre specializzazioni fanno registrare comunque un ritmo di invecchiamento molto sostenuto: tra il 2012 e il 2022 la quota di over 54 anni tra i medici d’urgenza è passata dal 26% al 41,8%; tra gli oncologi dal 23,7% al 32,8%; tra i geriatri dal 32,8% al 45,2%”.

I dipendenti del pubblico? Non crescono neanche dopo la pandemia – Dal Covid in poi la sanità è tornata al centro delle discussioni politiche, ma ad allarmare è il fatto che non ci sia stato ancora un reale incremento del numero di assunti. Prima della pandemia, spiega l’Istat, “la dotazione di medici specialisti dipendenti del SSN è leggermente diminuita in valore assoluto” (da circa 105 mila unità nel 2012 a circa 102mila nel 2019). Ma l’ultimo dato del 2021, quindi dopo il Covid, è simile a quello dell’anno precedente: 102.376 medici dipendenti. “Nonostante i recenti interventi normativi straordinari volti a rafforzare il personale medico sanitario“, osserva l’Istituto di statistica, “il tasso” di medici specialisti dipendenti del pubblico “rispetto alla popolazione, pari a 173,3 per 100mila abitanti nel 2021, è ancora inferiore a quello registrato dieci anni prima (175,7 nel 2012) e di poco superiore a quello del 2019 (169,7)”. Se si considerano poi gli specialisti attivi nel sistema sanitario pubblico e privato, quelli dipendenti del SSN rappresentano una quota decrescente nel tempo: erano il 62,6% nel 2012, il 56,2% nel 2019 e il 54,8% nel 2021. E di conseguenza “le cessazioni dal servizio dei medici del SSN risultano in aumento nel tempo: erano 6.731 nel 2012, 9.232 nel 2019, 10.596 nel 2021”. I motivi sono vari: il 20,9% è dovuto “a collocamento a riposo per limiti di età”; il 31,5% a “dimissioni con diritto alla pensione”; il 17,1% “al passaggio ad altre amministrazioni pubbliche, vincita di concorsi o risoluzione del rapporto di lavoro”. Da non sottovalutare, infine, il 30,5% che se ne è andato per altre cause, “tra cui le dimissioni volontarie (che possono evidenziare la scelta di esercitare la propria professione nel settore privato o all’estero)”.

Iscritti all’università – Nel frattempo, si è cercato di aumentare gli iscritti a Medicina con qualche risultato. Sono infatti migliorati i dati dei laureati, quasi raddoppiati rispetto al 2010 (seppur con una flessione negli ultimi due anni). Gli iscritti nell’anno universitario 2022/2023 sono oltre 15mila (erano 9,4 nel 2017/2018). Sono invece circa 49,2 mila gli studenti dei corsi di specializzazione, con un incremento del 73,7% rispetto al 2017/2018. E’ una crescita importante, legata proprio alla spinta post pandemia e all’ampliamento dei posti disponibili, e che ha permesso di “assorbire l’offerta insoddisfatta degli anni precedenti (il cosiddetto “imbuto formativo”)”. In compenso però, non sono cresciuti abbastanza i professori né i ricercatori. Un dato che, lo dice anche l’Istat, permette di “cogliere le implicazioni organizzative e strutturali sugli atenei e i policlinici universitari chiamati ad accogliere un numero maggiore di studenti”. Se, infatti, “il numero di professori ordinari e associati mostra un lieve aumento nel tempo – particolarmente accentuato nell’ultimo biennio – il numero di ricercatori è progressivamente diminuito”. Quindi mentre si è cercato di aumentare i posti per gli studenti, non c’è stato un pari investimento per migliorarne la formazione. E intanto si discute come cambiare l’accesso alla professione, tra test d’ingresso e numero chiuso da rivedere. Dibattiti che, lo dicono i dati, sono sempre più urgenti se si vuole garantire il diritto alla salute di tutte e tutti.

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