L’apparente cortocircuito della storia che ha fatto sì che alla vigilia del Giorno che le Nazioni Unite dedicano alla memoria dell’Olocausto, la Corte internazionale di giustizia rendesse pubblica la sentenza che riconosce la plausibilità delle accuse di genocidio dei palestinesi rivolte dal Sudafrica ad Israele – chiedendone di interrompere immediatamente tutte le violenze che possono renderlo effettivo – è in realtà un inveramento della funzione pedagogica e programmatica, non solo celebrativa, del 27 gennaio.

La Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu istitutiva del Giorno della memoria (60/7 dell’1 novembre 2005) esorta gli Stati a svolgere programmi formativi al fine di prevenire sia gli atti di genocidio che le manifestazioni di intolleranza e violenza contro tutte le comunità “su base etnica o religiosa ovunque si verifichino”. Anche se a commetterle, naturalmente, è il governo dello “Stato ebraico”, perché essere eredi storici delle principali vittime delle violenze nazifasciste non rende automaticamente immuni dal commetterne a propria volta. “Possiamo riconoscere l’unicità di quel genocidio – scrive Roberta De Monticelli su il manifesto (28 gennaio 2024) – senza dover ammettere che lo stato di Israele non sia imputabile di crimini contro l’umanità, compreso quello di genocidio”.

Del resto il nesso tra quella violenza storicamente subita dai padri e questa attualmente perpetrata da (alcuni tra) i figli era già stato segnalato, tra gli altri, da Noam Chayut, uno dei giovani fondatori dell’organizzazione pacifista israeliana Breaking the silence che, nel libro The girl who stole my Holocaust (La bambina che rubò il mio olocausto), racconta l’impatto emotivo della sua visita ad Auschwitz svolta da studente prima dell’obbligo militare e il cortocircuito tra quella memoria e ciò che era obbligato a fare con l’esercito israeliano nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania. In particolare le violenze efferate, subite e assistite, nei confronti dei bambini. Fino a quando un giorno Noam racconta che stava consegnando avvisi di confisca di beni e nei dintorni stava giocando un gruppo di bambini, subito scappati via alla vista dei militari, salvo una bambina rimasta paralizzata dalla paura. Chayut aveva provato a farle un sorriso gentile, ma quella era scappata a sua volta terrorizzata. “Chayut aveva visto il riflesso di un male annientante – ne scrive Masha Gessen sul New Yorker (Internazionale, 19-25 gennaio 2024) – che come gli era stato insegnato era esistito solo tra il 1933 e il 1945, e solo dove governavano i nazisti”, e invece realizza in quel momento che proprio lui stava riproducendo elementi di quel male. Per questo Chayut lascia l’esercito e, da allora, si impegna a raccontarne e arginarne la violenza.

In fondo, che la violenza genocidaria sia sempre riproducibile perché non è stata commessa da mostri ma da individui “normali” che hanno attivato i dispositivi del “disimpegno morale”, analizzati da Albert Bandura e da altri psicologi sociali, è la rivelazione di quella “banalità del male” della quale aveva avuto prova Hannah Arendt al processo di Eichmann a Gerusalemme. “I giudici sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro – scrive Arendt – ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, perché implica che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.

Di fronte alla banalità del male, la salvezza possibile risiede – allora come oggi – nella responsabilità del bene, ossia nell’impegno personale di coloro che assumono su di sé la responsabilità di riconoscere, identificare e agire contro il dilagare della violenza, chiunque ne sia vittima. Chiunque ne sia carnefice. E’ accaduto durante la seconda guerra mondiale, quando molti non ebrei rischiarono la vita per salvare gli ebrei ricercati dalle deportazioni nazifasciste: dalla resistenza nonviolenta in Danimarca che salvò quasi tutti i danesi di origine ebraica; al villaggio di Le Chambron-sur-Lignon che, guidato dal pastore Andrè Trocmè, riuscì a nascondere e salvare migliaia di ebrei francesi; a Villa Emma di Nonantola, dove furono protetti e salvati dalla popolazione locale 70 giovani ebrei fuggitivi da varie parti di Europa; a molti altri casi agiti dai “Giusti tra le nazioni”.

Anche la scelta di Naom Chayut, come quella degli obiettori di coscienza e dei pacifisti israeliani che da decenni si impegnano contro l’occupazione della Palestina, come la scelta del governo sudafricano di denunciare i crimini del governo israeliano – facendosi in questo caso erede attivo della storia di verità e giustizia di Nelson Mandela – rappresentano forme attuali della responsabilità del bene. Che rispondono, allora come oggi, al verso del Talmud che recita: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Che sia ebrea o musulmana, israeliana o palestinese. O di qualunque altra appartenenza.

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