Non è semplice osservare il modo col quale il disagio adolescenziale, spesso artatamente travestito da cronaca e massicciamente amplificato dai media, invade le nostre case sotto forma di delinquenza giovanile, violenza legata allo spaccio di droga, tendenze autodistruttive e spinta all’isolamento. Specie nel post pandemia, quell’universo è stato attraversato da un malessere di fondo che va al di la dei normali tribolamenti legati alle criticità di un età di cambiamento e trasformazione.

Egualmente indigesto è il diffuso moraleggiare di tanti validi esperti della psiche giovanile, sociologi, politici e opinionisti i quali affollano le trasmissioni televisive intenti a dissertare di ‘sfacelo delle nuove generazioni’, ‘costumi corrotti’, famiglie a pezzi, ‘autorità paterna scomparsa’, il tutto inghiottito nella melassa dei bei tempi d’oro andati per sempre. Chi ha nostalgia di antichi mores da restaurare, chi di padri detronizzati da richiamare in servizio, chi propugna con fervore la necessità della fedeltà coniugale come antidoto alla degenerazione copulativa odierna, per finire con chi lancia crociate contro la pornografia e il sesso in rete. Tra un severo monito a ‘staccare i ragazzi dal computer’ e ‘fare i genitori e non gli amici dei figli’, nello spettatore attento si insinua il dubbio che questi antichi e pur validi consigli di clinico abbiano ben poco o nulla.

Queste indicazioni di vita, se si va indietro con la memoria, sono le stesse che ci venivano impartite dai nostri nonni, o dai genitori, quando si parlava di droga, cattive compagnie, violenza. Non bere, non ti drogare, rispetta i genitori, non fare risse.

Il clinico, il conoscitore della mente umana, lo ‘psy’, fuori e dentro il setting terapeutico ha il compito di incarnare una posizione di ascolto e osservazione dei fenomeni sociali senza mai divenirne un censore. Deve assolvere al compito di essere un lettore laico del mondo contemporaneo, uno che con la pulsione di morte deve saperci fare senza indietreggiare. Un clinico sa, o dovrebbe sapere, che il senza limite è oggi la cifra di tanto mondo giovanile, basti pensare a tutte le patologie che vanno sotto il nome di ‘clinica dell’eccesso’, fatta di alcol, droghe, gioco d’azzardo, disturbi alimentari.

Mentre la medicina cura l’uomo perché mangia troppo, beve troppo e gioca troppo, la psicanalisi lo riconosce come uomo proprio perché sono i suoi eccessi a definirlo. E come tale va ascoltato e sostenuto nel non cadere nel baratro che egli stesso costruisce.

I nostri studi sono colmi di ragazzi che, specie dopo il periodo pandemico, sniffano, si tagliano, giocano cifre esagerate online. Dimagriscono in modo malato, o gonfiano i loro corpi in palestra sino a perderne il controllo e diventarne schiavi. Ciascun paziente che vive sulla propria pelle la questione del senza limite, uno per uno, è portatore di una modalità distruttiva di declinare l’esistenza che è compito di un terapeuta dapprima interpretare, poi lenire e limitare. Si tratta spesso di sintomi gravi da trattare e curare assieme al paziente, senza giudicare o ergersi a censore della sua condotta. Per questo serve lasciare l’ex cathedra e immergersi nelle dinamiche del mondo dei ragazzi.

Per potersi confrontare con loro, e assolvere fino in fondo il nostro compito, bisogna mandare al macero le nostalgie del tempo che fu alle quali sovente fa da sottofondo il ritornello ‘ai miei tempi era tutto meglio’. Si tratta infatti di una retorica capziosa e clinicamente inutile. Negli anni 70 non c’erano i pericoli della rete, vero. Ma i giovani morivano per strada con la siringa nel braccio, a decine, si menavano e si uccidevano in regolamenti di conti tra bande di opposte fazioni politiche. Le ragazze venivano stuprate, in branco, senza che nulla potessero dire, ottenendo spesso una reprimenda sociale che imponeva loro un silenzio di tomba. Il codice rosso era ben lontano a venire, e a queste restava solo la vergogna di essere colpevolizzate dall’intero paese qualora avessero denunciato il violentatore. Molti insegnanti usavano indisturbati le mani verso gli allievi, i cosiddetti ‘metodi educativi’ in molte famiglie erano spinti all’eccesso.

I libri, le nozioni, il sapere sulle dinamiche dell’animo umano e sui farmaci sono un indispensabile strumento di conoscenza per chi fa il nostro mestiere. Ma i manuali di psicologia e psichiatria non possono prescindere da un’opera di messa a lato del proprio essere, fatto a volte di retroterra ideologici, convinzioni religiose, idee politiche. Fare il clinico significa occupare quel posto di scarto, di silenzio e testimonianza delle vite altrui, il che implica rifuggire rigorosamente posizioni giudicanti e magistrali.

Curare ed accogliere stanno dalla parte opposta del giudicare. Noi non siamo sacerdoti, non assolviamo né giudichiamo. Il solo Dio ammesso in seduta è quello delle fede di pazienti. Il Dio che placa l’angoscia del fobico, il Dio col quale si parla nel delirio. Il Dio che salva la madre dagli abissi del lutto inelaborabile allorquando perde un figlio. Ma noi, qualunque sia la nostra fede in un Aldilà e qualunque entità superiore veneriamo, dobbiamo sederci dietro ad un lettino laico.

Articolo Precedente

Gramellini su Venezi confonde indulgenza e femminismo: così si scivola nel vittimismo

next
Articolo Successivo

Toscana, boom di iscrizioni alle scuola per pastori: “C’è chi lavora davanti a un pc e adesso vuole cambiare vita”

next