Siamo tutti molto riconoscenti ad intellettuali come Paolo Crepet e Massimo Recalcati per il generoso impegno profuso nel trattare la questione giovanile in un paese culturalmente arretrato come l’Italia. Nei loro interventi, due in particolare sono le questioni ricorrenti, ovvero la scuola e la famiglia. Difficile non esser d’accordo con la radicale critica che essi muovono ad una scuola che non educa più (36esimo posto su 57, dati Ocse). Altrettanto condiviso è il severo ammonimento che essi rivolgono a quei genitori-avvocati, afflitti più dall’idea narcisistica di mostrare di aver fatto bene che di fare effettivamente il bene dei figli. In un paese che vanta dati da terzo mondo, continuiamo ad assistere passivamente agli effetti di 40 anni di abiura pedagogica nel nome di presunte libertà filiali, metodi educativi new-age e altri deliri senza alcun fondamento culturale e scientifico che stanno condannando intere generazioni a soccombere nella vita e nella competizione globale.

Ciò premesso, vengo a quanto mi sta più a cuore. Nel caso della scuola, una critica strutturale che promulghi soluzioni generali, o una vera e propria riforma, è metodologicamente corretta. D’altro canto, riforme della scuola ne sono già state fatte. Mi permetto tuttavia di sollevare una critica, radicale a mia volta, quando questi stessi intellettuali propongono consigli a grappolo in ambito pedagogico-familiare, come se la psicologia fosse una scienza esatta in grado di operare a prescindere dal singolo caso specifico. Esiste forse un manuale d’istruzioni per educare i figli? Un modello a cui fare riferimento in astratto? Dal punto di vista epistemologico (vedi Foucault e altri) la psicologia è una pratica che dal caso particolare può (o non può) risalire al generale; un modus operandi individualizzante in cui, per citare Morselli, l’essenziale si annida nel particolare. E questo particolare va osservato, scovato e studiato come in una minuziosa e paziente indagine segreta. Offrire consigli tout court temo possa rivelarsi, nel tempo, profondamente contrario alla natura stessa di questa disciplina, poiché, come non può esistere un contenuto psicoanalitico valido per tutti, non credo possa esistere un contenuto psicologico altrettanto universalmente valido.

Perfino nel ristretto ambito di un nucleo familiare, difficilmente un genitore potrà adottare la stessa strategia educativa con la primogenita e il terzo fratellino. E che dire dei diversi caratteri, predisposizioni e delle innumerevoli variabili che concorrono allo sviluppo personale? Ambiente, cultura, economia, epoca storica non sono dettagli, bensì i presupposti a partire dai quali elaborare e modulare una tattica educativa. Se educare (ex-ducere) vuol dire ancora trarre fuori, e ogni bambino è una storia a sé, che senso ha affermare: “Bisogna fare così!”. Qualche esempio. “Non dovete fare lo zainetto ai figli perché altrimenti diventano molli”. Per molto tempo ho preparato lo zaino a mio figlio finché lui, un bel giorno, ha proposto serenamente di farselo da sé. “Con i figli che vanno male a scuola bisogna usare il pugno duro”. Ripenso al mio liceo classico, durante il quale alcuni professori mi consigliarono di ritirarmi. Mia madre, solitamente piuttosto dura, fu comprensiva e affettuosa, e in quella dolcezza trovai la forza di compiere un recupero memorabile.

Le scelte particolari non possono che dipendere dalla strategia generale nelle quali sono calate. Stando al primo esempio, in gioco c’è il modo in cui si fa lo zaino, il tono con il quale si offre l’aiuto, il fatto che il bambino percepisca questo gesto come un atto d’amore e non di controllo o mancata fiducia. Nel secondo caso, con un ragazzo diverso sarebbe stata probabilmente necessaria tutt’altra strategia, puntando magari sull’orgoglio. In questi, come in mille altri esempi, i dettagli rappresentano l’essenza della questione; ma se queste sfumature restano strutturalmente escluse dall’analisi teorica astratta a partire dalla quale scaturisce il consiglio dell’esperto, che consiglio è?

Qualcuno obietterà che, nello stesso spirito in cui Alberto Manzi istruiva milioni di italiani, questi interventi sono comunque preziosi. Ho qualche dubbio, perché un conto è insegnare materie elementari fornendo i mattoncini di base a partire dai quali si elabora una conoscenza successiva, un conto è veicolare concetti complessi a un pubblico che certi elementi propedeutici non li ha. La divulgazione è utile per intuire i contorni di un problema, ma è anche pericolosa, in quanto seducente nel suo generare un illusorio senso di appagamento che ci esenta dalla fatica di studiare davvero. Inoltre, per essere efficace, la divulgazione non può che fare appello al senso comune, con ampio impiego di analogie e similitudini che sono utili per capirsi, ma non per capire. Tali “chiavi d’accesso” non costituiscono assolutamente dei validi strumenti di analisi o intervento, e questo andrebbe sempre ricordato, perché operando con poche e confuse informazioni si rischia concretamente di fare danni maggiori.

A prescindere dalle nobili intenzioni con le quali nascono certe operazioni, gli effetti non sempre sono quelli previsti o sperati. Mi auguro vivamente che le numerosissime persone che seguono i nostri intellettuali di grido in tv o su internet possano trarre giovamento dai loro insegnamenti. Al momento, tuttavia, l’effetto maggiormente tangibile mi pare sia rappresentato soprattutto dai numerosi emuli che infestano la rete con video, tutorial e “consigli della nonna” su come crescere un bambino, in che modo uscire da una relazione tossica o come riconoscere un narcisista. Non so se Maurizio Crozza abbia esagerato un po’ con la sua psicobanalisi, ma di sicuro ha fiutato gli effetti che questa pedagogia divulgativa di massa avrebbe sdoganato prima, e alimentato poi.

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