“Come promesso abbiamo approvato oggi un decreto legislativo attuativo del Patto per la Terza Età: è una riforma di cui andiamo orgogliosi e che l’Italia aspettava da più di 20 anni, solo una tappa di un percorso che andrà avanti per tutta la Legislatura”. Sono le parole delle grandi occasioni, quelle scelte da Giorgia Meloni per annunciare le novità della riforma per l’assistenza agli anziani, che il suo esecutivo ha varato giovedì 25 gennaio, dopo aver lavorato a tappe forzate (la scadenza era il 31 gennaio) sulla norma che era stata avviata in zona Cesarini dal governo Draghi.

Dunque orgoglio, grandi emozioni e anche un fuori programma a sorpresa: l’aumento dell’assegno di accompagnamento da 530 a 1380 euro al mese. Che è poi quello che ha dato fior di titoli ai quotidiani dell’indomani, come pure al Tg1 della sera stessa dove la notizia è stata letteralmente accostata quella sulla data delle elezioni, con un lapsus dall’impatto non trascurabile, vista la polemica sulla “propaganda elettorale” che ne è seguita. “Con più di 1 miliardo di euro in due anni e l’avvio della sperimentazione di una prestazione universale che consentirà di aumentare di oltre il 200% l’assegno di accompagnamento degli anziani più fragili e bisognosi, diamo finalmente risposte concrete ai bisogni dei nostri oltre 14 milioni di anziani, ai non autosufficienti e alle loro famiglie”, ha sintetizzato Meloni confermando sostanzialmente le anticipazioni della vigilia e rilanciando le entusiastiche dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa post consiglio dei ministri dalla viceministra del Lavoro, Maria Teresa Bellucci.

Anche se poi, scava scava, non è tutto oro quello che luccica. Non tanto e non soltanto perché la montagna ha partorito un topolino, visto che l’incremento dell’assegno avverrà con una specie di voucher da spendere in prestazioni assistenziali da 850 euro al mese, 150 in meno dei mille inizialmente previsti e nella sperimentazione andrà solo agli ultraottantenni disabili gravissimi, non autosufficienti certificati Inps e con un Isee inferiore ai 6mila euro. Cioè al massimo 25mila persone in tutta Italia, contro una platea di 3,8 milioni di ultrasessantacinquenni non autosufficienti e di 14 milioni di anziani.

Piuttosto il punto è che in molte regioni d’Italia agli invalidi gravissimi viene già distribuito agli aventi titolo un assegno di cura variamente denominato che attinge al fondo per la non autosufficienza e va da 350 a 1200 euro al mese, con limiti Isee decisamente superiori a 6.000 euro, ma sempre da spendere per l’assistenza regolarmente contrattualizzata. Per fare alcuni esempi, dalla Lombardia alla Liguria, passando per la Campania, la Puglia (tutte arrivano a ridosso dei 1200 euro al mese), il Lazio con Roma che sostiene l’assistenza con assegni fino a 800 euro, il Molise (500 euro al mese oltre a varie misure aggiuntive), fino all’Emilia Romagna che è tra le meno generose con circa 400 euro al mese. La somma scende se l’invalidità è grave invece di gravissima e/o se a prendersi cura dell’invalido è un parente (il caregiver) invece di un professionista, attestandosi in genere sui 400- 350 euro al mese. In alternativa ogni Regione, che solitamente opera di concerto con Asl e Comuni, stanzia fondi per le cosiddette Rsa aperte e/o altre forme di assistenza, ovvero per coprire la quota sanitaria del ricovero in Rsa. Invece i Comuni dovrebbero coprire la cosiddetta quota alberghiera per i gravissimi incapienti, previe rigorose verifiche su Isee e patrimoni dell’interessato e delle relative famiglie, con soglie comunque superiori ai 6mila euro. In alternativa sta sempre ai Comuni provvedere all’assistenza domiciliare e all’invio a casa dei pasti per i più poveri.

Questo perché la spesa assistenziale per un non autosufficiente è ben superiore sia all’importo dell’accompagnamento, sia a quello dell’accompagnamento rafforzato a 1.380 euro al mese. Secondo la definizione di non autosufficienza la persona non è in grado di compiere da sola le funzioni essenziali della vita quotidiana, come nutrirsi, spostarsi, vestirsi, lavarsi e ha bisogno di essere aiutata 24 ore su 24 da personale spesso specializzato, senza contare le cure sanitarie. Per un costo mensile non da poco: soltanto una badante non qualificata a tempo pieno costa almeno 1.300 euro al mese (si sale a minimo 1.800 euro per il personale qualificato) oltre tredicesima, tfr e ferie, somma cui va aggiunto il costo della sostituzione del finesettimana, per un totale che supera i 2.000 euro al mese. Oltre alle spese per la casa, i presidi (pannoloni che le Asl lesinano, le traverse, i prodotti specifici per l’igiene degli allettati e per l’alimentazione dei disfagici) i fisioterapisti e gli infermieri per le terapie complesse.

L’assegno rafforzato per i più poveri, spiegano dal ministero del Lavoro a ilfattoquotidiano.it, non si sommerà agli assegni di cura nelle loro declinazioni regionali, ma sarà alternativo. Cioè l’utente sarà libero di scegliere tra l’assegno di cura e lo stanziamento statale, al quale va comunque aggiunto, l’assegno d’inclusione di 780 euro al mese. Quindi l’esecutivo Meloni ha scelto di puntare più della metà dei soldi attinti da fondi Pnrr, Fondi Ue e Fondo per la non autosufficienza – in cifre quasi 600 milioni di euro su un totale di 1 miliardo – per inserire questa, chiamiamola variabile, che riguarderà al massimo il 2,5% degli ultraottantenni gravissimi e non autosufficienti e lo 0,2% dei 14 milioni di anziani d’Italia, che dovrebbero essere già coperti da Asl, Regioni e Comuni. Una spesa consistente, vista la scarsità dello stanziamento complessivo, ma comunque non risolutiva e non coerente con la riforma che invece sulla carta punterebbe ad armonizzare e ottimizzare il lavoro di Inps, Regioni, Asl e Comuni. Cosa che in questa sperimentazione non si vede.

E lo fa all’interno di quello che qualcuno definisce il capitolo “più innovativo della riforma”, cioè la già contestata Prestazione universale con cui la legge delega punta a riformare l’indennità di accompagnamento di circa 530 euro al mese che oggi l’Inps versa senza limitazione di Isee agli anziani non autosufficienti totali come riconosciuti da una commissione mista Inps-Asl. Questo assegno d’invalidità rappresenta una goccia nell’oceano delle necessità di chi lo riceve, naturale che le associazioni più vicine ai dettami costituzionali lo difendano a spada tratta. Tanto più che la riforma, come detto, punta a mescolarlo alle prestazioni assistenziali che afferiscono al sociale, unendo così socio e sanitario, che pure hanno livelli di assistenza e di prestazioni differenti, con la quota sociale limitata alle disponibilità di budget, mentre quella sanitaria non lo è.

Ma il fatto che la persona non autosufficiente – vecchia o giovane – sia un malato, quindi un paziente da curare obbligatoriamente tramite il Ssn indipendentemente dal suo Isee, è innegabile. E la proposta di integrare assegno e prestazioni assistenziali fa suonare più di un campanello non tanto perché tocca l’assegno, quanto perché con il solo fatto di convertire la pensione di invalidità in ore di infermiere o simili, introdurrebbe per legge il principio che un malato cronico non autosufficiente debba pagarsi le prestazioni sanitarie che dovrebbe comunque ricevere, se gli sono dovute per le sue condizioni di paziente. Invece aumentarle facendole pagare all’utente con il suo assegno di invalidità non è accettabile. Così le associazioni riunite nel Coordinamento per il diritto alla sanità per le persone malate e non autosufficienti (Cdsa), forti anche del parere diGiovanni Maria Flick, giurista e presidente emerito della Corte Costituzionale, temono soprattutto che, al di là della bontà o meno delle intenzioni, alla prova dei fatti la riforma finisca paradossalmente con il salvataggio dei conti del Sistema sanitario nazionale a spese della popolazione anziana che ne verrebbe esclusa.

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