È giusto che il Giorno della Memoria sia dedicato interamente alla riflessione sull’Olocausto. Fermo restando che non tocca né a un governo né a un partito né a un’associazione stabilire se e quando dei cittadini decidano di manifestare seguendo il dettato costituzionale.

La riflessione sulla Shoah è tanto più essenziale in quanto l’evento si sta allontanando dalla consapevolezza delle generazioni più giovani, con il rischio che si perda la comprensione della sua unicità. Il monito che proviene dal suo carattere speciale, che ne fa un segnale di allarme per il futuro, per ogni situazione in cui ci sia il pericolo che si affermino ideologie suprematiste.

Perché la persecuzione violenta degli ebrei sotto il regime nazista e dei suoi vassalli, il fascismo in primis, persecuzione che culminò con la soppressione programmata di milioni di uomini, donne, anziani e bambini innocenti, non fu l’effetto di un conflitto tra etnie o fazioni politiche, l’effetto di una secessione o di uno scontro tra stati. No. Fu provocato da una pura negazione ideologica dell’ “altro”. La pura volontà di sopprimere l’ “altro”. E’ questo il segno della sua assoluta malvagità. Su cui riflettere e non smettere di studiare. Il pensiero cristiano lo chiama mysterium iniquitatis, il mistero della malvagità. Ma anche il pensiero laico si interroga da secoli sulle radici della bestialità umana, una cieca volontà distruttiva che alle bestie non appartiene.

Il Giorno della Memoria deve anche servire a nutrire gli anticorpi perché sia sempre presente quel grido di “Mai più”. Barriera all’insorgere di nuove spinte distruttive. Ecco perché chi non ha il coraggio di ripudiare il fascismo, che impose le leggi razziali e aiutò i nazisti a portare ad Auschwitz cittadini italiani di fede ebraica, sarebbe meglio non si facesse vedere al Binario 21 di Milano.

La riflessione sulla Shoah dovrebbe anche favorire la non banalizzazione del concetto di genocidio. Negli ultimi decenni si è fatta strada la tendenza a voler apporre la definizione di genocidio ad ogni massacro su larga scala, attuato nel corso dei secoli o nel presente. Quasi che l’orrore per le carneficine verificatesi avesse bisogno di un upgrading, di una sorta di promozione. Con il rischio di svilire il senso profondo e tragico della parola, o peggio di usarla propagandisticamente a seconda del momento politico. Poche settimane dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina c’era già chi gridava, irresponsabilmente, al genocidio. E va detto che anche la carneficina attuata dall’esercito israeliano tra i civili di Gaza non è genocidio nel senso stretto del termine. E’ vendetta, punizione collettiva, ma non volontà di eliminare i palestinesi in quanto etnia. Il che nulla toglie all’orrore.

La propaganda tuttavia, da ogni parte provenga, è nemica della razionale valutazione storico-politica: nel gioco duro della competizione geopolitica si evoca il “genocidio” di curdi o uiguri a seconda della stagione. Se Cina o Turchia stanno dalla “nostra” parte (presupposta), il destino di certi popoli viene rimosso; se invece è utile allora si alza il volume della retorica genocidaria.

Le terza riflessione, a cui spinge la giornata che commemora la Shoah, riguarda l’antisemitismo. E’, nel vero senso della parola, una brutta bestia che risorge periodicamente dai sotterranei della storia, nutrita dal secolare antigiudaismo del cristianesimo e anche da alcuni passi del Corano (sebbene storicamente le comunità ebraiche abbiano avuto in parecchi stati islamici condizioni di vita molto migliori che sotto i regimi che si definivano cristiani).

Nei confronti dell’antisemitismo, come di ogni fenomeno che propugna apertamente o ambiguamente pulsioni di odio razziale, non può esserci inerzia o accondiscendenza. Nel dicembre scorso era nelle edicole in Puglia e Basilicata un giornale che titolava in prima pagina: “6.150 Gesù uccisi da Israele”. Una vergogna. Al tempo stesso non può essere accettata la manipolazione politica che del termine antisemitismo fanno sistematicamente da anni gli ambienti che, in Israele o fuori, propugnano una politica di non riconoscimento dei diritti dei palestinesi.

Anni fa un vignettista del New York Times disegnò un cane-guida dal volto di Netanyahu che conduceva un cieco Trump. Pura satira politica. Fu licenziato perché la vignetta fu accusata di antisemitismo. Corrispondeva a verità? No. Fu un atto di arroganza delle lobby pro-Israele.

Proprio di questi tempi la manipolazione dell’accusa di antisemitismo è ricorrente. E anche all’interno di Israele si protesta contro questa distorsione. Quando nei mesi scorsi l’ambasciatore israeliano all’Onu, di fronte all’isolamento internazionale per i massacri di Gaza, ha voluto appuntarsi sul petto la stella gialla (imposta dai nazisti agli ebrei), a Gerusalemme il direttore del Memoriale Yad Vashem sulla Shoa gli ha risposto duramente, dicendo che il suo gesto rappresentava un “oltraggio sia alle vittime della Shoah sia allo Stato di Israele”.

Sono tanti, dunque, i motivi di riflessione in questa Giornata della Memoria del 2024. Sapendo che non cade in un vuoto storico. La ferita del popolo che vive accanto a quello israeliano va sanata. E la mano destra non può fingere di non vedere ciò che fa la mano sinistra. La barbarie degli eventi del 7 ottobre – responsabile Hamas – non giustifica la devastazione senza precedenti e il massacro di 25.000 civili a Gaza.

Se in Israele la situazione per ora è bloccata, la diaspora ebraica con la sua sensibilità storica e culturale può contribuire a favorire il nascere di 2 Stati. E’ urgente voltare pagina. Tacere equivale soltanto a lasciare carta bianca al cinismo del governo Netanyahu e ai suprematisti fanatici che lo sostengono.

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