Un normale blocco stradale, come ce ne sono tanti, in provincia di Trapani. Uno stop ordinario in cui però a essere sottoposto a controllo delle forze dell’ordine è stato Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss stragista, latitante da più di vent’anni. Lo era di certo quando è stato fermato, ormai sette anni fa, ma al posto di blocco nessuno lo ha riconosciuto. A rivelarlo è stato il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia: “Indagando dopo il suo arresto abbiamo scoperto che il boss era stato addirittura fermato a un posto di blocco. Ma non fu riconosciuto dai carabinieri che controllarono il suo documento, tutto sembrava in regola”, ha rivelato il procuratore durante un incontro con gli studenti di Casal di Principe, in provincia di Caserta, nella villa confiscata dove ha sede Casa don Peppe Diana, il luogo dedicato al sacerdote ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994.

La procura di Palermo sta indagando per ricostruire gli anni di latitanza dell’ex primula rossa, arrestato nel capoluogo siciliano il 16 gennaio del 2023, 8 mesiprima di morire per un tumore al colon. Da un anno la procura guidata da De Lucia scava per risalire a chi ha aiutato Messina Denaro a nascondersi. Ma come è stato possibile che, fermato a un normale posto di blocco, il boss non sia stato riconosciuto? “Queste foto sono state fatte nel 2006. Nello tesso preciso periodo hanno fatto un identikit su me, dove sembrava avessi 85 anni e 5 mesi. In verità in quel periodo ero come in queste foto”, così ironizzava nel 2014 lo stesso boss scrivendo alla figlia Lorenza. Un messaggio in cui ironizzava sull’identikit fatto dalle forze dell’ordine e scritto in un libricino trovato dai carabinieri del Ros nel covo di Campobello di Mazara. Un vero e proprio diario per raccontare la sua vita alla figlia, riconosciuta poi solo poco prima di morire, lo scorso 25 settembre. “Messina Denaro contava sul fatto che le forze dell’ordine avevano sue foto vecchie di anni”, ha spiegato De Lucia. Ma non solo, l’ex latitante poteva contare su una rete di supporto: “C’era anche chi lo avvisava dei movimenti degli investigatori. Ci dobbiamo interrogare su come sia stato possibile che abbia trascorso trent’anni in latitanza. Oggi, l’impegno della procura di Palermo è quello di individuare chi ha favorito Messina Denaro”, ha aggiunto De Lucia.

Messina Denaro, d’altronde, interrogato dai magistrati aveva detto di conoscere la posizione di tutte le telecamere di Campobello di Mazara: “Tutte le telecamere di Campobello e Castelvetrano le so, primo perché ho l’aggeggio che le cercava, che non l’avete trovato; e poi perché le riconosco”. Un identikit che non gli faceva onore mentre sapeva dove fossero le telecamere, assieme ad una rete di fiancheggiatori che hanno aiutato il boss a restare nascosto per 30 anni, ad avere anche documenti, come quello esibito alle forze dell’ordine al posto di blocco o come quello esibito alla clinica Maddalena, dov’era in cura sotto il falso nome di Andrea Bonafede: “Nel territorio del Trapanese, il suo territorio, aveva vissuto a lungo, sicuro di non essere scoperto”, così ha spiegato ai ragazzi De Lucia che assieme al giornalista Salvo Palazzolo ha firmato il libro La Cattura, i misteri di Messina Denaro e la mafia che cambia” (Feltrinelli). Di certo gli inquirenti sono al lavoro per capire chi ha aiutato il boss che da latitante viveva ancora nel Trapanese, lì dov’era nato e cresciuto.

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