Rossana Serpe è andata all’estero un po’ per gioco, e ci è rimasta per necessità. Ha 35 anni ed è una biologa molecolare. Dopo la laurea all’Università di Padova ha fatto un dottorato in Francia nel Centro nazionale della ricerca scientifica (Cnrs). Poi è tornata in Italia per un postdoc all’Università di Verona, ma l’esperienza non è stata positiva. “Non era gratificante – racconta a ilfattoquotidiano.it – Dopo un anno il mio progetto ancora faticava a partire. Ho cercato altro, ma in ambito accademico trovavo solo contratti da mille euro al mese, e per entrare nelle aziende mi è stato più volte consigliato di fare un master a pagamento”.

Ora abita negli Stati Uniti da tre anni e guida uno dei team di ricerca di una startup che sviluppa terapie con cellule staminali ematopoietiche (Hsc) per il trattamento di malattie gravi o letali. Di origini calabresi, si è laureata in Biologia molecolare a Padova con un Erasmus in Germania. Proprio tramite i colleghi europei ha scoperto la possibilità di fare il dottorato con borse di studio erogate dal progetto Marie Curie, tra i principali finanziamenti per la ricerca nell’Ue. “Quando eravamo all’Università – dice – ci veniva suggerito di fare il dottorato o comunque di rimanere in ambito accademico. Era lo sbocco previsto”. Il bando Marie Curie si basa sulla multidisciplinarietà e sulla mobilità: chi lo vince va necessariamente all’estero per acquisire nuove competenze che devono essere innovative. Di solito, poi gli atenei del paese d’origine fanno a gara per assumere chi lo ha vinto. “Ho fatto domanda un po’ per gioco – racconta -. A quell’età non avevo le idee chiare, ma quel percorso era emozionante e prestigioso, quindi ho presentato la candidatura e ce l’ho fatta”. È rimasta al centro nazionale delle ricerche francese per quasi cinque anni. Il suo studio era su specifiche interazioni neuronali alla base del ciclo sonno-veglia nel moscerino della frutta, i cui circuiti funzionano in modo simile a quelli dell’uomo. “In Francia – racconta – mi sono trovata bene. Si lavorava sodo, non c’era problema con i finanziamenti e la strumentazione era avanzata”. Proprio per come è concepito il finanziamento Marie Curie, i colleghi di Serpe venivano da tutto il mondo. “Il laboratorio era internazionale – racconta – ho conosciuto persone di culture diverse e stretto amicizie che durano tutt’oggi, è un’esperienza che arricchirebbe chiunque”.

Finito il dottorato, Rossana ha provato a tornare in Italia. “La mia idea non era rimanere all’estero per sempre – spiega – intendevo tornare dopo il PhD”. Aveva vinto due postdoc, a Padova e a Verona. Ma nel laboratorio padovano i fondi tardavano a partire, così ha scelto Verona. “Ci sono rimasta per un paio d’anni – spiega – ma non è stato appagante. Mi ero abituata a condizioni professionali diverse. Durante il dottorato in Francia lavoravo a più progetti contemporaneamente, collaboravo con più laboratori e viaggiavo moltissimo per presentare il mio lavoro in contesti internazionali. In Italia ho fatto fatica ad adattarmi a tempistiche lavorative lente, a volte aggravate da una burocrazia farraginosa. In più ho ritrovato le classiche dinamiche per cui ci sono professori con più peso di altri”.

Ha mandato candidature in tutta Italia, ma nessuna sembrava percorribile. “Erano contratti con borse di studio da mille euro al mese per vivere in città come Milano. Non sarei mai riuscita a mantenermi, quindi non ho accettato”. A quel punto ha iniziato a pensare di abbandonare il ramo accademico per entrare in azienda. Si è abilitata come biologa e ha mandato candidature alle imprese, ma senza successo. “Avevo circa trent’anni e nessuna esperienza pregressa che non fosse accademica. I miei colleghi facevano master per entrare nel privato, ma io non ero convinta: avrei dovuto pagare cifre molto alte per accedere a uno stage con cui poi, forse, essere assunta. Non volevo”. Da qui la scelta di tornare a guardare all’estero e all’Università, un mondo che conosceva e che le sembrava più accessibile. “Dopo pochissimo mi hanno presa alla Columbia University a New York. Sono partita controvoglia, perché sarei rimasta volentieri in Italia, ma il lavoro era bello, facevo ricerca sull’Alzheimer e avevo un ottimo stipendio”, dice. Mentre finiva l’assegno postdoc è stata contattata dalla startup per cui lavora adesso. “È stato vantaggioso per me. In Italia trovavo molte porte chiuse, mentre all’estero sia all’Università che in azienda ho fatto tanti colloqui ed ero apprezzata”. Oggi, a Boston, riesce ad avere un tenore di vita adeguato ai suoi studi, sta facendo carriera rapidamente e vive in una città che la soddisfa. “Certo, le tutele negli Usa sono diverse dall’Ue – spiega – Per la mia esperienza, i ritmi lavorativi sono serrati e la competizione è alta. Ma la mia azienda fornisce un’ottima assicurazione sanitaria e molti amici conosciuti negli anni vivono qui. Diversamente dall’Italia, si può fare carriera più facilmente ma i contratti permettono facili licenziamenti”. A parte i momenti di nostalgia, l’Italia non è tra i suoi pensieri. “Tutto quello che so lo devo all’Università di Padova – spiega – ma per me adesso sarebbe troppo difficile lavorare alle condizioni italiane. Non riuscirei ad accettare compromessi per restare in Accademia e non vedo prospettive di una crescita professionale altrettanto rapida nelle aziende biotech”.

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