Nella sua settimana tipo, Antonio Cubisino lavora in media 13 ore al giorno. Fa interventi di chirurgia mini-invasiva su pancreas e fegato, segue i pazienti nel pre e post operatorio, fa turni di guardia anche la notte. Lavorando in un centro trapianti, quando è reperibile spesso prende il jet dell’ospedale e vola dove c’è un possibile donatore d’organi. Ha 33 anni e tutto questo lo fa per la sanità pubblica francese. Dal 2022 lavora a Parigi, prima era negli Stati Uniti e prima ancora a Montpellier. Ha deciso di vivere all’estero appena finita la specializzazione: “Negli ospedali italiani si sente troppo la gerarchia e la politica – dice a Ilfattoquotidiano.it – In Francia non si assume per concorso, si punta a reclutare soltanto i medici veramente capaci. Si lavora in autonomia e i primari sentono la responsabilità delle loro scelte. Qui faccio interventi che in Italia farei, forse, a 45 anni”.

Cubisino è cresciuto a Caltagirone e si è laureato in Medicina a Catania ma mentre era al secondo anno ha chiesto di frequentare la sala operatoria. È lì che ha incontrato il suo primo mentore. “Era un mondo incredibile per me – ricorda – e il professore era avanti. Aveva lavorato per tanto tempo a Houston, in Texas, mi raccontava la vita dei chirurghi in America ed è così che ho cominciato a maturare l’idea di un’esperienza clinica simile”. Antonio voleva fare chirurgia, e chiedeva consigli a chiunque su dove fosse meglio specializzarsi in Italia. Uno dei poli d’eccellenza era Trieste. È lì che ha conosciuto il suo secondo mentore, anche lui rientrato dopo anni di formazione all’estero. “Eravamo cinque specializzandi ogni anno – spiega – e il professore cercava di farci perfezionare a seconda delle nostre passioni. A me interessava la chirurgia robotica, ed è così che sono andato in un centro di riferimento in Veneto, poi a Montpellier per il quarto anno di specialità”.

Conclusa l’Università non è finito però il desiderio di imparare. “Mi sono candidato per il posto ritenuto il migliore al mondo per la chirurgia robotica, quasi impossibile che fossi preso ma volevo provarci”, dice. Antonio ha vinto una borsa di studio di un anno per fare pratica nell’ospedale della University of Illinois Chicago. “Era il mio sogno – racconta – avrei pagato per formarmi lì, e finalmente potevo lavorarci”. Si tratta di uno dei centri più avanzati del pianeta, è guidato da un italiano ed è il punto di riferimento per i professionisti del settore.

Mentre cresceva come chirurgo, il primario di un ospedale di Parigi in visita a Chicago per un aggiornamento professionale lo ha visto all’opera, ed è così che si è aperta la strada del rientro in Europa. “L’ospedale parigino aveva appena acquistato un nuovo robot e io avrei fatto al caso loro perché sapevo usarlo – racconta – ho detto subito di sì. Gli Stati Uniti erano un ottimo posto in cui imparare, ma non mi vedevo a viverci. La Francia invece l’ho sempre sentita più vicina all’Italia”. Da lì il trasferimento nella capitale francese, dove ha convinto anche la moglie a spostarsi. “È siciliana anche lei – dice – all’inizio era scettica ma poi ha capito che per me era difficile ottenere le stesse chance in Italia”. A cambiare non è tanto lo stipendio o la progressione di carriera, ma la concezione del suo mestiere. “Qui lavorare in équipe è un’opportunità più che una condizione imposta dall’ambiente gerarchico. Un medico sta in ospedale anche 24 ore di fila ma ha piena autonomia, è gratificato dal suo lavoro e questo fa la differenza”. Oggi, da tre anni all’estero, Antonio non pensa di rientrare, a meno di non trovare le condizioni per dare il massimo. “È stato faticoso stare così tanto fuori, doversi inserire, parlare un’altra lingua e farsi accettare ogni volta. Ma vorrei tornare solo se posso essere una risorsa per la mia terra. Le migliori opportunità per formarmi non sono in Italia, e se anche rientrassi, visto il divario Nord-Sud, rischierei di ritrovarmi comunque lontano da casa”.

Mentre il ministero discute per eliminare i test d’ingresso alla facoltà per far fronte alla carenza di medici, lui sostiene che la selezione serva, ma debba essere riformata. “Se fatta bene – dice – aiuta a scegliere i professionisti più motivati. Moltiplicando il numero di specializzandi si farà ancora più fatica a dare loro una formazione adeguata”. Anche in Francia mancano sanitari. Negli ultimi dieci anni si è passati da 328 a 318 dottori per 100mila abitanti, e molti scelgono di lavorare nel privato perché più sostenibile. “La differenza – spiega Cubisino – è che la sanità francese rimane attrattiva. L’ospedale in cui lavoro è pieno di stranieri di ogni nazionalità, dai tedeschi ai libanesi. Non vengono per tappare buchi, ma per formarsi o perché sono eccellenti nel loro settore”. A cambiare è la gestione vera e propria del reparto, amministrato quasi come un’azienda. “Qui non c’è nessuno scelto per coprire turni. Il primario seleziona uno per uno i medici che reputa migliori, e a sua volta viene valutato solo per come lavorano i dottori che ha assunto. Ecco perché il sistema funziona. In Italia, da questo punto di vista molto deve essere ancora fatto”.

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