Passa la ronda, colpo di martello. Dei diavoli neri, eddai col martello. La ronda passa – e bum il martello – a notte fonda, fonda, fonda. L’arnese schiaccia un pezzo di cuoio e dà il tempo alla voce, più concentrata sul volume che sull’intonazione. La cantilena segue le note di un’opera di Pietro Mascagni, il Piccolo Marat, e accompagna il passaggio di un gruppo di fascisti, al solito molto compresi nella parte, che passa lungo la via. L’inno canzonatorio è tutto per loro: a dedicare la Ronda dei Diavoli neri, dando fondo alle riserve dei polmoni, è un calzolaio e tutti lo conoscono con un soprannome, Merendone. Scorre sulla strada la truppetta impettita e Merendone con il martello segna il ritmo e ricalca quasi a piena voce il coro lugubre: “La cadenza ognor del nostro piè, semina il terror, semina l’orror”. E’ una delle tante storie – piccole eppure grandi – di antifascismo “esistenziale”, come lo chiamano i ricercatori storici, che ancora dopo cent’anni pulsano nelle vene di Livorno. Livorno la rossa e ribelle, anarchica e fumina, vivaio di garibaldini e poi incubatrice del comunismo italiano, la città della scissione, il teatro Goldoni col faccione di Karl Marx, il delegato bulgaro dell’Internazionale, il teatro San Marco col tetto rotto, e sotto quel tetto, ombrello in mano, Gramsci e Bordiga. Di tutto questo è stato raccontato tutto. Eppure, una volta messa questa diapositiva così familiare sotto a una lente di ingrandimento, allargati pollice e indice sullo schermo, un colpo di zoom rende più chiari particolari inattesi, svela un segreto in più di quell’anatomia della città che ha legato per sempre il suo nome alla storia della sinistra e in particolare a quella tutta speciale, unica nel mondo, del comunismo all’italiana.

Come in una matrioska, si scopre che la figura più grande ne nasconde una più piccola e identica: Il cuore rosso di Livorno, insomma, come si intitola l’ultimo libro di Enrico Mannari (Carocci editore, 172 pp., 20 euro) che racconta la storia di Pontino San Marco, due nomi per un quartiere solo, nato e rimasto popolare, scintilla e pistone di tutte le battaglie di libertà e democrazia che Livorno ha combattuto attraverso i secoli delle rivoluzioni e dei diritti. Di ogni svolta della Storia di Livorno, racconta l’intreccio del libro di Mannari, a Pontino San Marco si può trovare l’innesco. Le fiamme risorgimentali, le insurrezioni del primo Novecento, l’antifascismo iniziato prima che ci fosse il fascismo, le battaglie civili sul divorzio, il pacifismo come assillo e fede nei mesi della Guerra Fredda e poi del Vietnam. L’energia di questo libro sorprendente nasce dalla abilità di conciliare la sterminata base documentale a una mole di testimonianze di protagonisti di quegli anni, in molti casi raccolte personalmente dall’autore, ex docente all’università di Firenze e alla scuola della Luiss, studioso del mondo cooperativo. Ne viene fuori quasi un romanzo popolare che disegna linee parallele nel tempo eppure così simili, che saltano da un decennio a un altro e però sono capaci di raccontare una storia sola.

Tra i capitoli di questo romanzo ci sono icone che non hanno nemmeno bisogno di didascalia. E’ in questo quartiere che nessuna bastonatura delle squadracce spaventa le uscite beffarde come quella di Merendone armato di martello e Mascagni o di Bella robba, che vende noccioline: “Viva Lenì, viva Lenì, viva le niccioline – grida quando passano le guardie mussoliniane – Bella robba passa”. Toni beffardi, botte vere: i fascisti lo pestano più di una volta, ma lui non rinuncia a ricominciare daccapo appena gli ricapita l’occasione. E’ in questo quartiere che viene scelto il teatro San Marco per riunire i comunisti pronti a trasformare una corrente in un partito che durerà settant’anni: succede a casa di Ilio Barontini, nome di battaglia Dario, un eroe civile la cui biografia starebbe stretta in un film, ferroviere diventato leader della Resistenza in Italia e in Francia.

E’ in questo quartiere che vivono, e che muoiono, i fratelli Gigli, trucidati dai fascisti due mesi e mezzo prima della Marcia su Roma. Pilade Gigli ha 30 anni, fa il tranviere ed è anarchico, suo fratello Pietro ha 35 anni, lavora come parrucchiere ed è consigliere comunale comunista. Abitano in via Santo Stefano, epicentro del Pontino, insieme alla mamma Giulia Cantini. Nella notte del 2 agosto del 1922 c’è chi bussa alla loro porta. Appena si apre una squadra di fascisti pisani – guidata da complici livornesi, oliata da sibilanti delatori e “coperta” dalle forze dell’ordine – fa irruzione e apre il fuoco con le rivoltelle. Il figlio di Pietro, Armando, capo dei giovani comunisti, scappa dalla finestra con lo zio Manlio, l’anziana madre di Pietro e Pilade rimane ferita e cieca per il resto della vita. Prima di andare alla porta aveva chiesto ai figli: “Perché non dobbiamo aprire? Siamo gente per bene”, una professione di dignità che guarda così lontano nel futuro da essere quasi commovente. Questa frase di Giulia Cantini è diventata il titolo di uno spettacolo di Alessia Cespuglio che a teatro ha raccontato la storia un po’ dimenticata dei fratelli Gigli, martiri del fascismo. Fu “un’azione brutale progettata proprio per essere realizzata di notte, in modo da aumentare il terrore, sorprendere gli aggrediti, seminare la paura tra tutte le famiglie del territorio” scrive Mannari. La strage dei Gigli fu uno degli ultimi atti di violenza bestiale dei fascisti prima che, due giorni dopo, assaltassero – armi in braccio – il Comune: Livorno era rimasta l’ultima città toscana ancora amministrata dalla sinistra. Il sindaco Uberto Mondolfi – un professore di Lettere, socialista, allievo di Giovanni Pascoli, amico di Amedeo Modigliani – rassegnò le dimissioni sotto le minacce dei fascisti, guidati tra gli altri da Costanzo Ciano, futuro ministro e futuro Ganascia, soprannome con il quale i suoi concittadini vollero dare memoria imperitura ai suoi appetiti a tavola ma soprattutto per gli affari lievitati con i suoi mille conflitti d’interesse. “Sono le ore 12 – fu la minaccia di Ganascia a Mondolfi – Alle due di oggi dovrete avere abbandonato Livorno, in caso contrario vi impiccheremo in piazza. Ci siamo intesi?”. Il marchese fiorentino Dino Perrone Compagni – capo dei fascisti in Toscana, picchiatore, massone, guerrafondaio – inviò un telegramma al segretario nazionale del partito fascista, Michele Bianchi: “Fra le mie battaglie questa più faticosa”.

Bar, osterie, fiaschetterie: è qui a Pontino e San Marco, spiega Mannari nel libro, che continua a impastarsi la resistenza di Livorno alle angherie di regime,. Si “impara” la politica al lavoro o parlando col vetraio o dal parrucchiere. “Famiglie numerose – rileva il libro -, dove il bisogno e la difficoltà a sbarcare il lunario fanno sì che i ragazzi lavorino fin da giovanissimi. Quando a tutto questo si aggiunge la morte di un genitore, o una malattia, si alimentano ancor più le condizioni per un sentimento di rivolta verso la durezza delle condizioni di vita e quindi il delinearsi di esperienze e approdi comuni”. “In fabbrica non si leggeva – è una delle testimonianze raccolte da Mannari – Il materiale circolava piuttosto nei negozi di parrucchiere, nelle botteghe dei fabbri e dei maestri d’ascia”. I funerali diventano riti di comunicazione collettiva, per ribadire il dissenso: non si va al lavoro, si espongono i simboli di appartenenza. Una consapevolezza che “si alimenta nei rapporti familiari e di vicinato”, quando ci si ritrova e si discute negli androni e nei cortili. I fascisti – che affidano il controllo del quartiere a un fanatico mandato da Roma, Gino Fantini – e la polizia cercheranno per anni di normalizzare il quartiere. “E’ l’ultima città d’Italia per quanto riguarda il risanamento morale dei suoi abitanti sovversivi” scrive di Livorno la polizia politica ancora nel 1933, cioè negli anni in cui il regime raggiunge l’apice del consenso.

I fascisti avrebbero dovuto prendere un po’ più di appunti dalla storia recente di Livorno. Il rione Pontino San Marco era stata l’avanguardia della ribellione della città durante i moti del ’48 e ’49, dell’Ottocento. A Livorno il filo rosso tra Risorgimento e Resistenza è doppio, ed è così rosso da colorarsi di amaranto. Mannari puntella tra i miti fondativi della memoria della città la battaglia durata 48 ore a Porta San Marco: è la difesa senza speranze contro l’esercito austriaco del 10 e 11 maggio 1849. Mannari, riprendendo le riflessioni di Nicola Badaloni (sindaco intellettuale che guidò la città per dieci anni dal 1955), sottolinea come “la difesa di Livorno non debba essere presentata come generico patriottismo, ma come frutto nazionale e patriottico della trasformazione democratica del Paese”. La città era una “vera ossessione della classe dirigente moderata”, spiega Mannari. Gino Capponi, presidente del Consiglio del Granducato di Toscana (retto dagli Asburgo-Lorena), scriverà: “Io se non era Livorno, tengo per fermo che la Toscana non avrebbe di per sé cominciato mai le rivoluzioni”. Friedrich Engels la nota fin dalla Germania annota: “La sola città italiana che dalla caduta di Milano è stata spronata ad una vittoriosa rivoluzione, Livorno ha finalmente comunicato il suo slancio democratico a tutta la Toscana, ha imposto un ministero decisamente democratico, più decisamente democratico di quel che non vi sia mai avuto in una monarchia”.

Non è un caso che quelle barricate – ancor più valorose poiché disperate – verranno celebrate nel secondo Dopoguerra dai comunisti del quartiere: un sacrificio, si legge su un giornale, affinché “nel futuro i giovani ricordino il bene supremio della difesa della patria, che si identifica con le aspirazioni popolari, con la difesa della vita, del pane e del lavoro del popolo, che si identifica con la sua volontà di migliorarsi, di creare una società di uomini veramente liberi”.

E’ sorprendente seguire la corsa di questa linea invisibile su cui corrono Pontino e San Marco, dai tiri di schioppo pre-risorgimentali alle riunioni del Partito degli anni Settanta sulle questioni dell’emancipazione femminile. Le sezioni di questi rioni diventano dopolavoro, agenzie formative, antenne dei bisogni del quartiere. E per la questura, con la guerra fredda, diventano sorvegliate speciali. I muri parlano e la parola che ricorre di più è pace. I comunisti scrivono di notte e fanno impazzire la questura. La polizia entra nelle sezioni a caccia di armi che puntualmente non ci sono mai. Fino agli anni delle contestazioni: è l’istituto tecnico che si trova proprio in questo quartiere a fare da avanguardia del Sessantotto in città. Con questo patrimonio morale dotato di cent’anni di conoscenze ed esperienze che le sezioni di questo quartiere diventano punto di riferimento per i comunisti di tutta la città: vengono a iscriversi qui anche coloro che sono nati e cresciuti altrove. Dice nel libro Edy Simonini che ha guidato la sezione del Pd ancora fino a qualche anno fa: “Gli anziani dicevano: se vuoi fare ‘carriera politica’ devi avere l’insegnamento dei compagni di San Marco”. Da qui uscirà grossa parte della classe dirigente della città.

Questa storia quasi magica, questo incantesimo che ha spinto il cuore rosso di Livorno di Pontino e San Marco dentro il Novecento è senz’altro perduto nel forte libeccio del passaggio di secolo. Cosa ne resti è il grosso punto interrogativo al quale il libro di Mannari non ha la pretesa di dare una risposta. E’ un messaggio in bottiglia scagliato nel futuro, e sotto a chi tocca: “Forse questo mio viaggio in un mondo tramontato potrebbe contribuire ad alimentare una consapevolezza storica che può rappresentare una risorsa culturale, di creatività, di immaginazione, di passione per un rione e una città alla ricerca di un’identità nuova senza però smarrire le proprie radici”.

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Nella foto in alto | Preparativi al ristorante della sezione San Marco Pontino a una Festa dell’Unità di Livorno negli anni Settanta (Crediti – Istituto Storico della Resistenza di Livorno)

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