Pur nelle a volte strumentalizzate informazioni sul massacro che sta avvenendo nella striscia di Gaza, è bene forse fare qualche chiarimento lessicale. Le parole sono pietre, diceva Carlo Levi, e se lanciate in modo sbagliato fanno male.

A partire dall’ignobile attacco di Hamas ogni critica alla reazione israeliana viene bollata come “antisemitismo”. L’avversione verso gli ebrei, in quanto seguaci di una religione, era già espressa dai politeisti, ma soprattutto dal mondo cristiano che li accusavano di deicidio, una sorta di peccato originale di cui si sarebbero macchiati, mandando a morte Gesù. Di qui le diverse politiche di emarginazione e di esclusione, il nascere di stereotipi negativi e di pregiudizi che vanno sotto il nome di antigiudaismo. Essendo però ebrei i fondatori del cristianesimo, i seguaci di Cristo non potevano pensare che ci fosse qualche tara nel sangue o negli antenati degli ebrei. Non era una questione legata alla natura, ma alla religione. La stessa chiesa cristiana fino al XII secolo prevedeva che gli ebrei potessero emanciparsi da quel peccato originale, attraverso la conversione.

L’intolleranza religiosa è diversa dal razzismo, perché condanna e perseguita gli altri per ciò che essi credono, non per ciò che intrinsecamente sono. Possiamo parlare di razzismo in senso lato, quando le differenze di carattere culturale vengono considerate innate, un prodotto della natura, indelebili e immutabili.

L’aggettivo “antisemita” viene coniato nel 1860 da un ebreo austriaco di nome Moritz Steinschneider, mentre il sostantivo derivato “antisemitismo” dovette aspettare quasi vent’anni per vedere la luce, per voce dell’antisemita socialista tedesco Wilhelm Marr. A differenza dell’antigiudaismo o ancora della giudeofobia, che indicavano l’avversione verso gli ebrei sulla base della loro fede e della loro tradizione culturale, l’antisemitismo esprime un sentimento di ostilità nei confronti degli ebrei in quanto gruppo (o “razza” come si credeva nella Germania nazista) o di un individuo ebreo in ragione della sua appartenenza a quel gruppo o razza. È proprio Marr a scrivere: “Non si tratta qui di far mostra di pregiudizi religiosi, ma di una questione di razza e del fatto che la distinzione tra noi e gli ebrei risiede nel sangue”. L’antisemitismo è quindi la variante razzista dell’antico antigiudaismo e proclamarsi antisemiti, significa essere “antiebraici” e “giudeofobici” secondo una modalità razzista, quindi propriamente moderna.

Tornando all’oggi, la maggior parte delle critiche è diretta contro l’azione del governo Netanyahu, non certo contro la religione ebraica, tant’è che molti ebrei, anche ortodossi, si sono schierati contro le sue scelte. Non sono neppure critiche nei confronti dello Stato di Israele in quanto tale, non si può certo paragonare la gestione attuale con quella di Rabin. Per questo risulta scorretto l’uso strumentale di un concetto – “l’antisemitismo” – che rievoca una tragedia che ha colpito il popolo ebraico in quanto tale, che rievoca rimorsi e sensi di colpa, ma che non ha nulla a che vedere con la condanna del massacro di Gaza.

Così come, sul versante opposto, risulta discutibile l’uso del termine “genocidio” applicato allo stesso massacro, termine “coniato nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin, per indicare la volontà di sterminio su un popolo in quanto tale. Non si vogliono eliminare gli individui, ma il gruppo in sé. Come ha scritto Elie Wiesel: “Mentre non tutte le vittime dei nazisti furono ebrei, tutti gli ebrei furono vittime, destinate all’annichilimento solo perché erano nate ebree”. Per quanto scriteriatamente vergognoso, il bombardamento di Gaza appare più come un’azione territoriale, in cui le vittime vengono cinicamente considerate danni collaterali, senza addurre alcuna teoria sul popolo palestinese. Anche perché significherebbe riconoscerne l’esistenza.

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