di Paolo Bagnoli

Che in Italia, dalla fine della Prima Repubblica, la politica – quella che dà senso al concetto – non c’è più è ben noto. Quella viene chiamata politica, e diversamente non potrebbe certo essere definita, è come priva di senso: di senso logico e morale nonché di politicità; insomma è tutt’altro.

Le responsabilità non risparmiano nessuno. Lo spettacolo di questi giorni ci squaderna la realtà di una crisi democratica che avanza senza remore né incontrare ostacoli; spinta da un governo che non sa governare e da una opposizione buona solo a fare la contro-eco a quanto emerge, giorno dopo giorno, dall’altro campo.

Possibile, per esempio, che il Pd – cui è toccato addirittura rispolverare Romano Prodi per dimostrare di possedere un brand – in occasione della legge di bilancio, a fronte di un ministro improbabile quale quello del Tesoro, non sia stato capace di smascherare la grande bugia dell’abbassamento delle tasse, dei più soldi che piovono come manna nelle tasche degli italiani cui si aggiunge ora quella di un’espansione dell’occupazione – e potremmo continuare: delle furberie ingannevoli di un governo che ha concertato un’azione finalizzata alle elezioni europee in un’assurda campagna elettorale iniziata da Giorgia Meloni subito dopo la conquista di Palazzo Chigi?

Impaurita – anche se ostenta forza e sicurezza – di non farcela a fare quanto ella stessa si propone di compiere, movimentando il battibecco con una Lega che sbanda salvinianamente, aggrappata in politica estera al sostegno all’Ucraina quale unico dato identificativo, ma senza grande peso sullo scenario internazionale e, cosa più grave di tutte, operando un sostanziale allontanamento dall’Europa la quale, piaccia o no, è l’unico battello di salvataggio a disposizione nel caso di un eventuale tracollo dei nostri conti poiché il livello cui è arrivato il nostro debito ci pone in una situazione borderline: Giorgia Meloni è il punto di sintesi del tutto.

Agitare la logica del complotto è puerile; tacere di fronte all’adunata squadrista di via Acca Larenzia sfiora la connivenza. Le talora labirintiche argomentazioni dei costituzionalisti se il saluto
romano rientri o no in quanto la Legge Scelba non permette ci appaiono – ci sia permesso con il dovuto rispetto per tanti studiosi – alla stregua di un estetismo giuridico poiché, a leggere bene quella legge, il saluto romano configura un reato. Ma è l’Italia: il Paese nel quale si scatta subito se in un teatro si alza un grido antifascista e, invece, si argomenta se un’adunata fascista modellata sul tipo di quelle nazionalsocialiste sia o no perseguibile.

Il ministro Piantedosi riferendosi all’accaduto in Parlamento ha detto che alcuni partecipanti all’adunata sono stati identificati, ma perché se precedenti governi – tutti senza FdI – non hanno fatto quello che ora dall’opposizione viene chiesto al gabinetto Meloni, perché esso dovrebbe farlo? Letteralmente non è proprio così, anche perché così non avrebbe potuto dire; ma basta leggere la chiusura del suo intervento per capire che è così.

Ora, è possibile avere un governo nel quale il ministro del Tesoro si dice contrario, pur essendo lui convinto del contrario, alla votazione del Mes perché non c’era l’aria giusta, roba da bar dello sport! – e quello dell’Interno si limiti a fare un girotondo che altro non è se non la traduzione politica del silenzio di Meloni? Schlein si sgola nel chiedere a Giorgia di pronunciare la parola “antifascista”; è propaganda, d’accordo, dubitiamo però che se ne renda conto poiché la questione ridotta a ciò non serve a niente.

Il grande fattore unificante di questa stagione è il vuoto di classe politico: né destra né chi vi si oppone – non usiamo la parola “sinistra” che significa altro – è capace di produrre politica. E così, la destra è autoritativa nell’esercizio del potere di un sistema basato sul governismo mentre gli altri sono “un volgo disperso che nome non ha”: aspirano solo a recuperare il potere perso. A vedere dai sondaggi – beninteso, valgono quello che valgono, ma qualche indicazione la danno – la destra gode della simpatia degli italiani o meglio di una cospicua parte di essa.

L’Italia, tuttavia, nel suo insieme è ben altro dei buoni patrioti a valenza nazionale che il prezzoliniano ministro della cultura vuole modellare. A chi spetti poi l’impegno di combattere la corruzione e l’evasione fiscale non è dato sapere.

Solo che quest’altra Italia si limita, in buona parte, a dimostrare brava cittadinanza, ma anche a essere lontana dall’impegno pubblico per la ricostruzione della dimensione liberale della nostra democrazia costituzionale. Ciò pone una questione “morale” di ampie dimensioni, e va dritta al cuore stesso della crisi che viviamo da oramai diversi decenni.

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