In un passaggio de Il dono di Humboldt il protagonista dichiarava di star lavorando a un romanzo il cui contorno era la noia alienata della grande metropoli, nella fattispecie Chicago, mentre “il tema di fondo era la guerra diuturna fra il sonno e la veglia, fra oblio e coscienza nell’umana natura”. Potrebbe valere anche per la Tokyo di Perfect Days dove, senza guerra e attutendo al minimo i conflitti, un Wim Wenders in stato di grazia sonda non tanto la loro contrapposizione ma come, a certe condizioni, l’impalpabile – e esfoliato e tremulo – trascorrere dell’inconscio notturno possa essere rilasciato dalla dedita – e accurata e benefica – attenzione della consapevolezza diurna.

Siamo tanto più liberi, trasfigurati dalle immagini che si schiudono involontariamente in noi come un frusciante paravento liquefatto, quanto più sappiamo apollineamente concentrarci sulle forme, minuziose, del nostro fare e del nostro dovere. Che nel caso di Hirayama, intorno al quale ruota tutta la vicenda, è il lavoro come addetto alla pulizia dei bagni pubblici – per noi squinternati mediterranei quasi avveniristici – di alcuni quartieri residenziali di Tokyo. E non può sorprendere, se già Tanizaki, anche lui impegnato a “spingere nell’ombra le cose troppo visibili” (Libro d’ombra), aveva scritto: “Chiunque possieda il gusto per l’architettura tradizionale deve concordare sul fatto che il gabinetto giapponese equivale a perfezione”. Perfect Days, che riaggiorna ereticamente l’assunto dello scrittore, concepito in via esclusiva per il gabinetto tradizionale, trasferisce la perfezione nella cura assoluta capace di trasformare anche l’occupazione più umile in contemplazione attiva. Che permette di essere nel modo più pieno e compiuto. Nemica è la distrazione, ogni negligenza rispetto ai propri atti. Il contrario dell’alienazione non è né ricchezza né esaltazione né successo, bensì essere sempre e integralmente in ciò che si è e ciò che si fa.

La vita, apparentemente abitudinaria del protagonista, evoca così, con la sua sola dimessa e reiterata messa in opera, tutte le più basilari domande di una filosofia sapienziale: cos’è il buon vivere? Che cosa significa saper guardare? Qual è il giusto rapporto tra pratica e contemplazione, in modo che l’una nobiliti e vivifichi l’altra?

Ad agire la contemplazione, nel film, è lo sguardo (necessariamente analogico) che si esercita con la fotografia: cogliere, come in un’inquadratura impressionistica, lo sfavillio delle foglie nella luce, le chiome degli alberi che oscillano come se fossero state create esattamente in e per quell’istante. E poi, a cadenza settimanale, vagliare la nettezza, la pregnanza lirica di quei ritagli di mondo metodicamente sviluppati e scartare l’approssimativo, l’inesatto dove niente di davvero essenziale sia venuto, letteralmente, alla luce.

Un assiduo esercizio col visibile cui fa necessariamente da contrappunto la sinuosa raffica d’ombre sovrapposte che disegnano il sonno di Hirayama. Perché, sembra suggerire Wenders, incomincia già a occhi chiusi l’eterno gioco di quel che, dalla caverna platonica a William Kentridge, può essere semplicemente detto: ‘cinemato-grafia’, lo strano miracolo cui assistiamo ogniqualvolta, entrati al cinema, la luce esige il buio per scrivere il divenire delle immagini. Il cui mistero è per essenza ‘imprendibile’, come svela la più iconica delle scene, gustosissimo e reiterato cliché, quando Hirayama e lo sconosciuto malinconico s’incontrano on the dock of the bay e provano ciascuno ad acchiappare l’ombra dell’altro saltandoci sopra. Cinema non è il fissaggio in immagine di qualcosa che accade, ma la prova che questo fissaggio di volta in volta fallisce. Il ‘girato’ è semmai l’inesausta testimonianza dell’impossibilità di appropriarsi di quelle immagini che però, proprio mentre sfuggono e perché sfuggono, danno incessantemente luogo all’esperienza umana del mondo.

Così anche Wenders sente il richiamo dell’ombra (ultimo affiliato della lunga discendenza felicemente tracciata da Antonio Costa sull’argomento), ma spiega che esso culmina con la “Visione dell’Intangibile”, un anomalo “miraggio” in movimento (shinkirō) di per sé incatturabile e che infatti “stinge – per non più riapparire fuorché nei dipinti, nelle poesie, nei sogni…”. Prediamo così a prestito dalle – mentalmente coestese – Ombre giapponesi di un altro “figlio adottivo” del Sol Levante, Lafcadio Hearn il quale, a dire di Hofmannstahl nel suo accorato necrologio, è stato l’unico occidentale ad aver davvero preso parte “alla vita interiore del paese”. Per azzardare che forse anche Wenders ha tentato col suo apprendistato immaginale qualcosa di simile, sul quale ancora Tanizaki magistralmente puntualizza – e potrebbe valere come sintesi generale dell’intento del film –: “Noi orientali creiamo la bellezza facendo apparire ombre in luoghi insignificanti”. “Noi orientali” e Wim Wenders (!), che in Perfect Days dichiara infatti tutto il suo ‘giapponismo’, diagnosticabile almeno da quando (e siamo nell’’83) ha intromesso in una pausa dalle riprese di Paris Texas quelle del «filmisches Tagebuch» Tokyo-Ga dove, come un iniziando, sottopone la sua regia al magistero di Ozu intermediato dall’attore feticcio Chishū Ryū, che reciterà anche in Fino alla fine del mondo, ma soprattutto dalle sedute ‘dottrinali’ dove dialoga con l’eminenza della fotografia Yûharu Atsuta.

Si ripete la scena prototipica del discepolo col saggio ‘patriarca’ che compare in tante storie Zen, su una delle quali è allora tanto più lecito tornare per provare a venire a capo dell’implicito di Perfect Days:

Un monaco chiese a Chao-chou: “Sono entrato proprio ora in questo monastero. Chiedo al patriarca di espormi la dottrina”.
Chao-chou rispose: “Hai già mangiato il tuo riso bollito?”.
Il monaco disse: “L’ho già mangiato”.
Chao-chou disse: “Allora va’ a lavare la ciotola”.
Il monaco ebbe un’illuminazione.

Perfect Days allude a quel senso di leggera pienezza che, in forma profana (cioè moderna ed epifanica), illumina l’Io che ha saputo esperire l’assolutezza anche nella più piccola ‘occasione’ quotidiana. In questo senso, Wenders reinterpreta à sa manière l’eredità della tradizione Zen, che nega l’incompletezza del qui-e-ora che cerca costantemente di proiettarsi in un altrove redentivo, mostrando come il massimo di concretezza, dunque di cognizione ed esperienza, si schiuda proprio quando si comprende che il mondo svelato è esattamente identico a quello che si avvera in tutti i nostri atti.

La lontananza dalla verità è in noi, nel modo in cui siamo e agiamo, nel distoglimento e nell’assenza di focalizzazione. Per – e soprattutto nelle – cose stesse questa separatezza non risulta. Vuoi incontrare il mondo in tutta la sua ‘giusta’ pienezza? Lava con cura la ciotola con cui hai mangiato; pulisci con la massima attenzione la tavoletta del vespasiano, come Hirayama che, per scongiurare imperfezioni, verifica anche dal basso con l’aiuto di uno specchietto che egli stesso ha meticolosamente predisposto.

Esaudito il suo compito quando, nella pausa, alza lo sguardo, vede le chiome degli alberi vibrare nella quiete, gloriosa e rasserenante, della loro semplice esistenza. È la forza viva, e presente, della sua quotidiana ‘illuminazione’. Perché la formula suprema della felicità suona sempre così: È tutto qui, nelle tue opere e nei tuoi giorni. – L’altrove, semplicemente, non esiste –.

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