La scrittura è l’unica cosa che resta quando si è perso tutto, perfino la disperazione.
La frase, manifesto di Viaggio in Giappone (vero titolo Sidonie au Japon), la dice una meravigliosa Isabelle Huppert e nel suo minimalismo disperato riassume quasi tutto il significato del film di Elise Girard.

Una scrittrice dalla penna esaurita da anni, i suoi libri di successo alimentati dal dolore infinito di famiglia e marito schiantati da incidenti d’auto, viene invitata a ripubblicare il suo romanzo di maggior successo in Giappone da un editore (Tsuyoshi Ihara) che incarna tutti i luoghi comuni del Sol Levante: introversione, formalismo, serietà, imbarazzo. Si potrebbe banalmente dire che la scoperta del nuovo mondo è per la scrittrice un viaggio dentro se stessa ma nel film c’è molto di più. C’è tutta la delicatezza femminile nella descrizione della disperata condizione umana, costantemente alla ricerca dell’amore. Non a caso, tutto il cast creativo del film è donna. Oltre alla Girard, le due sceneggiatrici (Maud Ameline, Sophie Fillières) e il direttore della Fotografia (Céline Bozon).

Attori entrambi magistrali e film emozionante, che esce quasi in contemporanea con Perfect Days, di Wim Wenders, anche questo ambientato in Giappone. Una francese e un tedesco che si calano all’interno di culture non proprie, entrambi tuttavia cogliendone importanti essenze. Ma, mentre Viaggio in Giappone fa effettivamente conoscere luoghi inconsueti ed evocativi come la incredibile isola dell’arte di Naoshima, il film di Wenders si svolge claustrofobicamente solo a Tokyo e per la precisione si ambienta quasi esclusivamente nei suoi famosi e lindi bagni pubblici.

Entrambi i film rappresentano la spasmodica sobrietà della mentalità giapponese lavorando sempre in sottrazione. Se qualcuno ancora si chiedesse se esista uno specifico del cinema europeo in confronto a quello made in Usa, la visione di queste due pellicole sarebbe essenziale per capirlo.

Il misterioso addetto alle pulizie di Wenders (il perfetto Kōji Yakusho, già Palma d’oro a Cannes) che vive in due stanze – la cucina è anche il suo bagno – e che ogni santa mattina compie il medesimo rituale di riavvolgimento del tatami prima di andare al suo ‘sporco’ lavoro non è in realtà molto diverso dalla splendida Huppert, la quale la sua routine quotidiana e minimalista ce l’ha nel dolore di vivere.

Entrambi i film sono meravigliosamente confezionati, con fotografia e composizione dell’immagine da grandissimi maestri del cinema (l’alternanza dei colori complementari perfino nei vestiti dei due protagonisti di Viaggio in Giappone; l’equilibrio delle forme pervicacemente ricercato nella rappresentazione visiva dei bagni pubblici).

Volendo scoprire una differenza tra le due splendide creazioni dell’ingegno registico, si potrebbe individuare nelle sceneggiature. Quella di Wenders infatti appare più statica, incantata su se stessa, forse volutamente (non sarebbe una novità per il regista tedesco), tanto è vero che persino quando nella storia appaiono possibili nuove e impreviste possibilità di svolgimento, gli imprevisti che tanto piacciono a Woody Allen, lui le lascia cadere per rimanere in una narrazione riflessiva e statica. Il protagonista approfondisce il suo personaggio ma non evolve. È felice per quello che è.

Completamente diversa la storia di Viaggio in Giappone, dove entrambi i personaggi, assolutamente infelici, subiscono invece una lenta ma inesorabile crescita interiore che li porterà a cambiare il loro modo di vedere il mondo e – forse – a tornare ad amare, anche grazie ai ‘fantasmi dei nostri defunti che sono costantemente attorno a noi’. Uno di questi è proprio il marito morto della scrittrice (Auguste Diehl) che diventa fondamentale per capire quando sia il momento di lasciarsi il dolore alle spalle.

Dimenticavo: in entrambi i film ‘nipponici’ anche le colonne sonore sono formidabili. Tutta incentrata su successi pop rock anni 70 quello di Wenders (boomer songs), per di più ostentati su audiocassette; stupendi assoli di pianoforte quelli di Gerard Massini nel film francese, insieme a un immancabile Ryuichi Sakamoto e all’immenso Bach.

Due film che non si possono perdere nel 2024 e magari preparare con questi il proprio personale viaggio in Giappone.

Articolo Precedente

‘Vacanze di Natale’ torna in auge, mentre ‘Loro’ è sparito: segno dei nostri tempi degradati

next
Articolo Successivo

Addio ad Alberto Massirone, il medico e patron del cinema Centrale di Milano il multisala più antico d’Italia

next