Serviranno altri 90 giorni alla Corte d’appello di Reggio Calabria per scrivere le motivazioni della sentenza di secondo grado del processo “Xenia” dove era imputato l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, condannato a 18 mesi, con pena sospesa, solo per un falso relativo a una delle 57 delibere che gli erano state contestate dall’accusa in uno solo dei 19 capi di imputazione che gli venivano addebitati. Una sentenza che è stata emessa lo scorso ottobre e che, di fatto, ha ribaltato quanto deciso nel settembre 2021 dal Tribunale di Locri secondo cui, sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel piccolo Comune del reggino, c’era stata “un’azione illecita di accaparramento delle risorse pubbliche” e per questo Mimmo Lucano era stato condannato a 13 anni e 2 mesi.

Accogliendo la tesi dei difensori dell’ex sindaco, gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, infatti, i giudici della Corte d’appello hanno demolito quell’impianto accusatorio messo in piedi dalla Procura di Locri che oltre ai falsi, agli abusi d’ufficio, ai peculati e alle truffe, contestava all’ex primo cittadino addirittura di essere stato il promotore di un’associazione a delinquere che aveva lo scopo di commettere “un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio), così orientando l’esercizio della funzione pubblica del ministero dell’Interno e della prefettura di Reggio Calabria, preposti alla gestione dell’accoglienza dei rifugiati nell’ambito dei progetti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria) e Msna (Minori stranieri non accompagnati) e per l’affidamento dei servizi da espletare nell’ambito del Comune di Riace”.

A più a cinque anni dal blitz della Guardia di finanza, rimane solo il calvario vissuto da Lucano, arrestato il 2 ottobre 2018, e un “modello Riace”, riconosciuto in tutto il mondo come esempio di accoglienza dei migranti, distrutto sull’altare di un’inchiesta e da accuse che, già nel dispositivo di sentenza, i giudici di secondo grado non hanno ritenuto essere nemmeno reati. Tra intercettazioni, arresti domiciliari, divieto di dimora e due processi, piuttosto Mimmo “u Curdu” è stato sottoposto a “un accanimento non terapeutico”. I legali di Lucano lo hanno ripetuto più volte prima della sentenza della Corte d’Appello che, stando a quanto si apprende, per motivare l’assoluzione dell’ex sindaco di Riace ha chiesto altri 90 giorni vista la corposa documentazione che la difesa ha prodotto durante il dibattimento.

Una proroga che, ancora prima di essere dettata dal carico di lavoro dei giudici della Corte d’Appello (da anni in carenza di organico) è dovuta al fatto che il “procedimento in questione si caratterizza per la non comune complessità e la delicatezza delle vicende trattate”. Ecco perché il processo a Mimmo Lucano, secondo il giudice Davide Lauro, “esige una attenta ed analitica ricostruzione degli elementi di prova, di natura intercettiva e dichiarativa, – si legge nel provvedimento – oltre che della poderosa produzione documentale delle difese, oltre che la risoluzione di diverse questioni giuridiche, sia sul piano procedurale sia in punto di esatta qualificazione giuridica delle condotte contestate”.

In sostanza, dopo aver annullato la pesantissima condanna del Tribunale di Locri, la Corte d’Appello con la sentenza “Xenia” dovrà smontare tutto il castello dell’accusa e rimettere a posto la storia di Riace. I giudici di secondo grado hanno il delicato compito di riempire di contenuto quelle tre parole (“Il fatto non sussiste”) che il pomeriggio dell’11 ottobre hanno restituito la dignità a un uomo, Mimmo Lucano, che si è speso sempre per i più deboli credendo nella giustizia, anche dopo l’arresto e dopo la prima condanna quando la prospettiva peggiore era quella di trascorrere molti anni in carcere.

Eppure era chiaro sin dall’inizio che qualcosa non aveva funzionato nell’indagine della Procura di Locri se il gip Domenico Di Croce, nonostante sia lo stesso che ha firmato l’ordinanza di arresto, aveva sottolineato “la vaghezza e la genericità del capo di imputazione”. In sede cautelare, inoltre, la Cassazione nell’aprile 2019, aveva annullato l’arresto perché l’accusa poggiava “sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale sfornito di significativi e precisi elementi”. Per non parlare del Riesame che 4 anni e mezzo fa aveva bollato come “inconsistente” il quadro indiziario messo in piedi dalla Procura di Locri che, per bocca dell’ex procuratore Luigi D’Alessio, in un’intervista su Repubblica, due giorni dopo l’arresto aveva parlato di “2 milioni spariti” e utilizzati da Lucano per “fini personali”. Ignorando che dopo 3 anni di indagine (e adesso anche dopo 4 anni di processo tra il primo e il secondo grado), neanche un euro di soldi pubblici è stato trovato in tasca all’ex sindaco di Riace.

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