Anche i reati che riguardano la gestione del denaro pubblico sono caduti a parte una delibera del 2017. Un anno e 6 mesi di carcere con pena sospesa. È finito l’incubo per Mimmo Lucano. L’ex sindaco di Riace non era in aula e non ha potuto ascoltare le parole con cui la presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria Elisabetta Palumbo ha interrotto l’ansia che ha preceduto la sentenza di secondo grado del processo Xenia. “Assolto”. Tensione azzerata per un centinaio di amici che hanno atteso cinque anni questa sentenza. Resta il calvario che ha portato l’ex sindaco di Riace prima agli arresti domiciliari e poi a un lungo periodo di esilio, durato un anno. Un calvario che, soprattutto, ha distrutto il “modello Riace”, riconosciuto in tutto il mondo come esempio di accoglienza dei migranti.

A cinque anni dal blitz della Guardia di finanza, infatti, il processo Xenia si è sgretolato e ha dimostrato tutta la sua inconsistenza. Secondo la Procura di Locri, Lucano sarebbe stato il promotore di un’associazione a delinquere che aveva lo scopo di commettere “un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio), così orientando l’esercizio della funzione pubblica del ministero dell’Interno e della prefettura di Reggio Calabria, preposti alla gestione dell’accoglienza dei rifugiati nell’ambito dei progetti Sprar, Cas e Msna e per l’affidamento dei servizi da espletare nell’ambito del Comune di Riace”.

A parte l’imputata Maria Taverniti, rappresentante legale della cooperativa “Girasole”, che è stata condannata per due capi di imputazione a un anno di carcere, con pena sospesa, (venendo comunque assolta dai reati più gravi), la Corte d’appello ha assolto anche tutti gli altri 16 imputati: Fernando Antonio Capone, Cosimina Ierinò, Jerry Tornese, Pietro Curiale Oberdan, Abeba Abraha Gebramarian, Giuseppe Ammendolia, Nicola Audino, Assan Balde, Oumar Keita, Anna Maria Maiolo, Gianfranco Musuraca, Salvatore Romeo, Lemlem Tesfhahun, Filmon Tesfalem, Cosimo Damiano Musuraca e Maurizio Senese. L’impianto accusatorio aveva, però, retto in primo grado quando il Tribunale aveva condannato Lucano a 13 anni e 2 mesi di carcere, quasi il doppio di quelli (7 anni e 11 mesi) chiesti dalla procura di Locri. Quella sentenza, emessa nel settembre 2021, era eccessiva anche per la Procura generale. Non a caso, in sede d’appello, nell’ottobre 2022 i sostituti pg Adriana Fimiani e Antonio Giuttari, pur chiedendo la condanna, avevano auspicato una pena a 10 anni e 5 mesi di reclusione. Non ci sono neanche quelli: su 19 capi di imputazione non c’è nessun reato per i giudici di Piazza Castello.

L’unica cosa che ha retto è un episiodio di falso per una delle 57 delibere che sono state contestate dall’accusa in uno dei capi di imputazione. La Corte d’Appello, inoltre, ha dichiarato la prescrizione per un abuso d’ufficio contestato al capo 11 (che si riferisce a una falsa certificazione alla Siae per i concerti estivi del 2015 a Riace) e per un falso contestato alla capo 16 relativo all’affidamento del servizio di raccolta dei rifiuti a due cooperative sociali che non erano iscritte all’albo regionale. Per quest’ultimo reato era stata chiesta la prescrizione anche dalla Procura generale secondo cui era prescritto anche l’abuso d’ufficio contestato al capo 15 relativo ai diritti di segreteria che Mimmo Lucano non faceva pagare per il rilascio delle carte di identità ai migranti e ai cittadini di Riace. Su questo l’ex sindaco è stato assolto. Infine la Corte d’Appello ha dichiarato “di non doversi procedere per difetto di querela” in relazione a una truffa contestata a Mimmo Lucano nella qualità di “presidente di fatto dell’Associazione ‘Città Futura’”. In realtà l’accusa è legata a quella di associazione a delinquere da cui Lucano è stato assolto perché non aveva alcun ruolo in Città Futura ma era solo sindaco di Riace. Non essendoci la querela i giudici non hanno potuto fare altro che astenersi dal trattare la vicenda mentre lo hanno assolto dalle altre 8 contestazioni di truffa contenute nello stesso capo di imputazione numero 5.

Oltre all’associazione a delinquere, fino all’ultimo gli inquirenti hanno contestato a Mimmo “u curdu” le accuse di abuso d’ufficio, truffa, falsità ideologica e peculato. Una sfilza di reati cassati sin da subito dal gip Domenico Di Croce che, già nell’ottobre 2018, ha rigettato la richiesta di arresto formulata dai pm sottolineando “la vaghezza e la genericità del capo d’imputazione”. Solo per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per alcune irregolarità nell’appalto del servizio di raccolta dei rifiuti (che nel piccolo comune della Locride veniva effettuato con gli asinelli), il gip aveva disposto i domiciliari per Lucano, poi trasformati in divieto di dimora dal Tribunale del Riesame e ancora dopo annullati dalla Cassazione.

Per la Suprema Corte, che aveva revocato l’ordinanza di custodia cautelare, non c’erano indizi di “comportamenti” fraudolenti commessi da Mimmo Lucano. Nell’aprile 2019, sempre la Cassazione aveva criticato la Procura anche in merito ai “presunti matrimoni di comodo” tra immigrati e cittadini italiani che sarebbero stati “favoriti” dal sindaco. Nel dibattimento del processo e in tutti gli atti dell’inchiesta Xenia, infatti, non è emerso nessun un matrimonio celebrato a Riace. L’unico di cui si parla nelle intercettazioni era stato bloccato proprio da Mimmo Lucano. Per questo, secondo gli ermellini, l’accusa poggiava “sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare”.

Quando la Procura di Locri ha chiesto per la seconda volta l’arresto di Lucano, è stato il Riesame di Reggio Calabria a rimettere la palla al centro. Per il Tribunale della Libertà, infatti, c’era un “quadro indiziario inconsistente”. Ma anche “erroneità del calcolo effettuato dalla polizia giudiziaria in punto di profitto del reato” e “compendio indiziario parzialmente contraddittorio e non univoco”. In sostanza, non c’erano – avevano scritto i giudici del Tribunale della Libertà – “condotte penalmente rilevanti e la stabilità della compagine associativa appare indimostrata”. Pur avendo retto in primo grado, infatti, i calcoli della Guardia di finanza erano sbagliati.

All’inizio dell’inchiesta, i pm avevano accusato l’ex sindaco di Riace di una truffa “con conseguente ingiusto profitto di 10 milioni di euro”. Per il Riesame, invece, la cifra era semmai di 343mila euro cioè “la differenza tra quanto ottenuto e le spese realmente effettuate”. Oggi la Corte d’Appello ha certificato che Lucano non ha preso nemmeno quelli. Eppure, all’indomani del suo arresto, in un’intervista rilasciata a Repubblica, l’ex procuratore Luigi D’Alessio aveva parlato di “2 milioni spariti” e utilizzati da Lucano per “fini personali”. Se i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e concussione erano già caduti nel processo a Locri, in appello si è discusso di tutti gli altri capi d’accusa per i quali Lucano, che si è sempre dichiarato innocente, era stato condannato in primo grado a una pena pesantissima.

A partire proprio dall’accusa di associazione a delinquere. Nelle 904 pagine della sentenza emessa dal presidente del Tribunale di Locri Fulvio Accurso, infatti, si faceva riferimento a“una regia comune” che avrebbe animato i componenti dell’associazione a delinquere che hanno agito accettando “di sostenere politicamente Lucano, ricevendo da esso, in cambio, piena libertà di movimento nella loro azione illecita di accaparramento delle risorse pubbliche”. Per i primi giudici, in sostanza, “si è trattato di un’organizzazione permeata dal ruolo centrale, trainante e carismatico di Lucano Domenico, che ne era al vertice, il quale consentiva ai partecipi da lui prescelti di entrare nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno di essi eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale”.

“In altre parole Lucano Domenico, – aveva scritto sempre il presidente Accurso – dopo aver realizzato l’encomiabile progetto inclusivo dei migranti, che si traduceva nel cosiddetto Modello Riace, invidiato e preso ad esempio da tutto il mondo, essendosi reso conto che gli importi che venivano elargiti dallo Stato per governare quel fenomeno erano più che sufficienti allo scopo, piuttosto che restituire ciò che veniva versato, aveva ben pensato di reinvestire in forma privata la gran parte di quelle risorse, con creazione di progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti (tra cui l’acquisto di un frantoio e di numerosi beni immobili da destinare ad alberghi per l’accoglienza turistica) che costituivano, ad un tempo, una forma sicura di suo arricchimento personale”.

Che Lucano abbia agito per scopi economici lo hanno escluso categoricamente gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia secondo cui, nei reati contestati all’ex sindaco di Riace “manca il dolo e manca la consapevolezza e la volontà di un vantaggio economico”. “Risulta dalla lettura di tutti gli atti processuali – hanno affermato in aula più volte – che Lucano non aveva un soldo sul proprio conto corrente”. Nel loro ricorso d’appello i due legali avevano contestato i capi di imputazione che cambiano, in peggio, direttamente in sentenza (da abuso d’ufficio a truffa aggravata) e le intercettazioni non utilizzabili per la Cassazione ma che, per il Tribunale di Locri, diventano il principale elemento di prova nonostante la loro trascrizione, in sentenza, non corrisponda a quella della perizia disposta dal Tribunale stesso durante il processo. Intercettazioni che, così, hanno fornito “un’interpretazione macroscopicamente difforme dal suo autentico significato e contrastante con gli inconfutabili elementi di prova acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale”.

“Il metodo adottato dal Tribunale – hanno sostenuto Daqua e Pisapia – segue in genere il seguente paradigma: annuncio che un certo fatto è comprovato dalle conversazioni intercettate, conferimento alluvionale delle intercettazioni, conclusione assertiva che le intercettazioni riportate forniscono la prova del fatto da provare”. Così è andata. Esclusi pure dal colonnello della Guardia di finanza Nicola Sportelli che ha condotto le indagini (“Non c’è un discorso di un vantaggio di natura patrimoniale”, ha dichiarato in aula durante il dibattimento), gli interessi economici nel corso del processo si sono trasformati in interessi politici. Ma anche in questo caso i due legali hanno contestato l’impianto accusatorio: se i migranti non votano e Lucano ha sempre rifiutato una candidatura alle politiche o alle europee, “come si fa a dire che ha fatto quello che ha fatto per motivi politici?”, si è domandato Pisapia secondo cui nei confronti di Mimmo Lucano “c’è stato un accanimento non terapeutico”.

Se così è stato o se, come ha sostenuto in aula l’avvocato Daqua, è stata “un’indagine unidirezionale perché ha silenziato qualsiasi elemento che risultava in contrasto con l’impianto accusatorio” lo si capirà dopo aver letto le motivazioni della sentenza d’Appello. Che non restituisce il “modello Riace” prima stroncato dalle decine di ispezioni disposte dalla prefettura di Reggio Calabria, quando il ministero dell’Interno era targato Partito democratico e alla guida c’era il calabrese Marco Minniti, e poi sacrificato sull’altare di un’inchiesta sbagliata ma accolta con entusiasmo dal suo successore, il leader della Lega Matteo Salvini.

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