Almeno una certezza, in quest’inizio d’anno bisestile, l’abbiamo: a Vienna, al Musikverein, Riccardo Muti dirigerà il concerto di Capodanno 2025; a Venezia, alla Fenice, sul podio ci sarà Daniel Harding. Insomma, alea iacta est. Alcuni patiti apprezzeranno, altri meno. Se ne parlerà per qualche giorno, poi si penserà ad altro. Fra un anno, a concerti avvenuti, si scatenerà il solito tormentone: Venezia sì Venezia no, Vienna sì Vienna no. Così è stato per il Capodanno 2024 come per quelli passati: musicisti, musicologi, musicofili, giornali e social, tutti sul piede di guerra. In fondo, se ci si azzuffa per un concerto, come per il Palio di Siena o il derby di calcio, va bene. Due parole vanno però spese sui due eventi, entrambi fastosi ma incommensurabili quanto a generi musicali, impostazione, contesto.

C’è chi rimane freddino di fronte al programma viennese, tutto polke, valzer e mazurke. Pezzi un po’ kitsch; stucchevoli, alla lunga, come tanti pasticcini zuccherosi in fila l’uno dopo l’altro. Non li si può però liquidare con una smorfia di sufficienza (lo confesso, qualche volta è capitato anche a me): sì, è vero, sono relitti di un mondo passato, ormai sommerso; ma conservano un tesoro di spiritosa eleganza, di grazia esuberante di cui la cultura europea può menar vanto. È un mondo che, in Austria, affiora ancora in certi comportamenti quotidiani, nella buona educazione dei ragazzi, nella Gemütlichkeit diffusa. Vogliamo privarcene? Si può, ma sarebbe una perdita.

Teniamocele strette, invece, queste musiche leggere, anzi leggiadre, perché da esse promana una sensibilità squisita, che non va dimenticata né derisa. È vero, in una certa misura i fulgidi valzer da concerto degli Strauß sono oggi scaduti al rango di gadget turistici: ma il patrimonio di urbana joie de vivre (anzi di Lebenslust) racchiuso nei fremiti e nelle svenevolezze, nei trilli e nei frizzi di queste partiture ha il suo fascino benefico. Non è detto, del resto, che si debbano sempre imbandire i Grandi Capolavori: a Capodanno, un calice di spumante alla mano, si possono perfin gustare i ballabili di Carl Michael Ziehrer o di Joseph Hellmesberger.

E poi ci sono loro, i Wiener Philarmoniker. Cravatta bianca e sorrisetto ammiccante, come a dire: “sappiamo suonare da soli, anche senza direttore”. E via, intonati come fossero un solo strumento, tirano fuori un lieve ritardando, o il tre quarti deliziosamente sghembo dei valzer, tutti insieme allo stesso microsecondo, senza neppure sbirciare il volto del Maestro. Impressionante. Inquietano quasi, sembrano atterrati da un altro pianeta, sideralmente lontano dal nostro. Un’esecuzione così sciolta, snella, levigata contiene un grande insegnamento: la si ottiene con l’affiatamento, l’attenzione continua, la severità.

Vi sembra poco in una società come l’attuale, sempre più individualista, pressappochista, frenetica? Quanto al direttore di quest’anno, Christian Thielemann, ha confermato la sua classe: ha governato la splendida compagine con vigorosa eleganza (e non sembri un ossimoro).

Venezia è diversa, ha una tradizione operistica alle spalle. E punta su di essa. L’Italia ha dato al mondo il melodramma, il canto lirico, che l’Unesco ha riconosciuto poche settimae fa come ‘patrimonio immateriale’. La bellissima Fenice, resuscitata dopo l’incendio devastante, risplende nel firmamento dei teatri italiani. Lo spettacolo di Capodanno gioca sullo smalto dei cantanti – quest’anno Eleonora Buratto e Fabio Sartori –, la professionalità di coro e orchestra, la perizia del direttore: c’era Fabio Luisi, impeccabile e versatile, lieve quando occorre, energico al momento giusto. La Fenice, poi, punta su un repertorio ‘popolare’, inanella pezzi generalmente noti al grande pubblico, in primis a quello che, agghindato a festa, colma palchi e platea.

Dato il centenario, Giacomo Puccini ha fatto la parte del leone. Certo, i palati fini, gli aficionados dei teatri di mezzo mondo, storcono il naso su brani risaputi come “Un bel dì vedremo”, “Recondita armonia” e via dicendo. Invocano più varietà, più inventiva, scelte più coraggiose. Hanno mille ragioni. Ma c’è un ma. Siamo certi che i brani ‘popolari’, quelli che agli addetti ai lavori paiono ‘scontati’, siano già noti alle migliaia di spettatori che la televisione raggiunge nelle case? Non è così. Venezia determina una ricaduta da non sottovalutare: addita al vasto pubblico certi capisaldi, saperi per così dire irrinunciabili, che una persona di cultura media, o anche medio-bassa, non può ignorare.

Certo, la programmazione del Teatro ha l’obbligo di modificare, di aggiungere qualcosa di nuovo di volta in volta, anno per anno: ma non scandalizziamoci se l’impianto, la cornice, rimangono stabili nel tempo. In fondo, sia Venezia sia Vienna sono un rito: e come tutti i riti richiedono stabilità, costanza. Per Venezia, poi, il concerto di Capodanno raggiunge uno scopo non dichiarato: rammenta a tanti, tantissimi concittadini poco adusi a teatri e sale da concerto che, oltre Sanremo, c’è anche quest’altro genere di musica. A inizio d’anno, quando tutti siamo più aperti alla speranza o all’illusione di un futuro migliore, Venezia indica, con souplesse, che esiste un altro modo di vivere, pensare, essere e sentire: e che esso è accessibile, fors’anche a portata di mano.

Meglio dunque non far troppo gli schizzinosi.

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