Durante la mia carriera, ho fatto servizio ad Alessandria, Cesena, Torino, Trapani, Nuoro, Forlì, Palermo e Roma, ma l’ufficio che mi è rimasto nel cuore è la Squadra mobile di Palermo. La Mobile palermitana ti ammalia, ti rapisce, avviluppa il cuore e non puoi che amarla. Indelebili ricordi rimangono scalpiti nel cuore, gioie e dolori sono sempre vivi nella mente: il sorriso di uomini che non sono più è sempre vivo in me. Ieri l’altro, nel riordinare dei documenti, ho ritrovato questa riflessione del mio caro amico e collega della Mobile, sovrintendente della polizia di Stato Pietro Visconti, che lumeggia magnificamente la Mobile di Palermo.

Ho sempre pensato alla Squadra mobile di Palermo come ad un luogo a sé stante. Come una sorta di tempio, un baluardo della legalità e della giustizia, un avamposto, un fortino in terra nemica. Un mondo in cui si celebrano i riti dell’impegno civile, del sacrificio personale, dell’abnegazione ad un ideale supremo e per molti incomprensibile: la lotta alla mafia. Quel palazzo secentesco che si erge giusto sul confine tra la città salotto, la città turista e i quartieri in cui antiche sono le radici dell’antistatico mi ha sempre emozionato. Un castello repubblicano, laico, ornato dalla scritta ad arco sul portone d’ingresso: “Questura di Palermo Squadra Mobile”. Un vero e proprio fregio non meno prezioso degli stucchi serpottiani che arricchiscono i palazzi barocchi della città più barocca del mondo: Palermo.

Non dorme mai la Squadra mobile, c’è sempre qualcuno che la tiene viva, c’è sempre un operatore in sala ascolto con le cuffie alle orecchie che affronta, come un cavaliere con la lancia in resta, il duello antico tra bene e male. Un brulicare di pantaloni jeans, di capelli lunghi e facce indurite dal lavoro, come quei contadini che sotto il sole affrontano le intemperie. E’ uno stringersi a corte attorno alla memoria dei colleghi che non ci sono più, ai quali generazioni di poliziotti rendono omaggio ogni giorno ed ogni notte, attraversando il portone d’ingresso, gettando uno sguardo alla lapide sulla sinistra sulla quale sono incisi i nomi degli eroi che si sono sacrificati alla causa della giustizia e dell’onore ad ogni costo.

E’ un anfiteatro misterioso il cortile interno della Squadra mobile, che risuona ancora dei pianti di dolore per la morte di uno di noi. Che echeggia delle grida concitate di un manipolo di uomini che si scambiano le ultime raccomandazioni prima di correre verso l’ennesima irruzione pistola in pugno. Nel quale esplode furibondo l’urlo sfrenato: “Positivo, ragazzi, positivo”. Che rimbomba degli applausi di trionfo e gioia primigenia, sincera e sofferta, per l’ennesimo successo mentre sfilano poliziotti col mefisto calato e le dita a “V” innalzate davanti a mondo, a testimoniare l’orgoglio simile a quello di un atleta che vince la medaglia d’oro alle olimpiade.

Ché quella che affronta la Mobile di Palermo è un’eterna finale per il primo e secondo posto. Quanta fierezza. Quanta commozione. Quante lacrime. E’ un luogo mitico la Squadra mobile. Sempre uguale a se stessa e sempre diversa. Come uno specchio incantato. Sullo sfondo i baffi anni Settanta di Giuliano e Cassarà, lo sguardo allegro di Montana, i capelli folti e ricci di Zucchetto, la faccia rubiconda di Mondo, la pelata di Aparo, il coraggio di Antiochia, e l’amore benevole di quelli che c’erano e non ci saranno più, mai più. Purtroppo.

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