di Carmelo Sant’Angelo

Devo ammetterlo, sono una bruttissima persona: provo simpatia per il Grinch. Non ditelo ai bambini. Il fatto è che mi mette di buonumore sapere che c’è qualcuno che “orgogliosamente” si batte per difendere le tradizioni italiche. Quando questo qualcuno è lo stesso che ama (sputare) sul prossimo suo come un ossesso, la cosa mi fa scompisciare dal ridere. Lo immagino con la spada difendere il solco e l’aratro cabriolet parcheggiato in doppio filare. Il richiamo alla mascella quadrata e ai fasti dell’impero mi riporta indietro nel tempo fino all’imperatore Costantino. Mi chiedo se anche allora negli Acta Diurna (l’antenato dei nostri quotidiani) c’era qualcuno che si strappava le vesti perché quegli orrendi cristiani volevano rubare la festa del Dies Natalis Solis Invicti. Una festa sacra introdotta nel 274 dall’imperatore Aureliano per celebrare il trionfo della luce sulle tenebre.

Il “cristianissimo” Costantino, il 7 marzo del 321, stabilì addirittura, che il primo giorno della settimana doveva essere di assoluto riposo e dedicato al Sole Invitto. Che “strana” assonanza con il giorno del riposo cristiano! Ma le coincidenze non finiscono qua. Tra il 17 e il 24 dicembre i Romani celebravano il solstizio d’inverno con i Saturnali, in onore del dio agricolo Saturno. La settimana dei Saturnali si trascorreva in allegria: banchettando, bevendo e facendo regali. Vi è mai più capitata un’esperienza del genere? Non conoscevano il consumismo e un dono era già sufficiente. Del resto dovevano fare tutto da soli perché Babbo Natale, meglio noto come San Nicola, visse intorno al IV secolo d.c. Fu un vescovo, con una folta barba e un lungo mantello, noto per fare doni ai poveri.

Ma addentrandoci ai confini dell’impero, nelle foreste germaniche, ci saremmo imbattuti in un altro vecchio barbuto, chiamato Odino. Era una divinità adorata dalle tribù teutoniche e raffigurato con una lunga barba bianca che ondeggiava dal dorso di un cavallo a 8 zampe (proprio come la renna di Babbo Natale), chiamato Sleipnir. I bambini riempivano i loro stivaletti con carote e paglia e li lasciavano vicino al camino perché Sleipnir si nutrisse. In cambio Odino avrebbe lasciato, nei medesimi stivaletti, alcuni doni. Che curiosa assonanza con la nostra calza della befana! Poi arrivò la Coca-Cola e diede ad ogni cosa un tocco di rosso fiammeggiante.

Ma cosa c’è di più italico delle canzoni cantate davanti al presepe? La tradizione di andare a cantare, di porta in porta, presso i popoli pagani del nord Europa è chiamata “wassailing”. Deriva dalla frase anglosassone “waes hael”, che significa “buona salute”. Le canzoni intonate, nelle fredde notti di dicembre, avrebbero scacciato gli spiriti maligni e per cui i cantanti erano omaggiati con la bevanda tradizionale, a base di birra brulè, panna cagliata, spezie e zucchero. Sarà per questo che, nelle città di mare, nei cori natalizi si infiltravano interi equipaggi di marinai? Nel XIII secolo San Francesco s’ispirò a questi allegri cori e diede inizio alla tradizione dei canti natalizi.

Ai “nemici” del popolo italico, che si ostinano a preferire l’albero, è giusto far sapere che era una tradizione già in uso presso i Romani. Erano soliti, infatti, durante i Saturnali, appendere ornamenti di metallo, che rappresentavano le divinità protettrici della famiglia. Mentre i Druidi decoravano gli alberi con frutti e candele per onorare il dio Odino. Per i romantici, infine, che si baciano sotto il vischio, occorre avvertirli che questa era una pianta sacra per i Romani, i Celti, i Druidi e i Norvegesi. In tempo di guerra se i nemici si fossero incontrati sotto il vischio dei boschi avrebbero lasciato cadere le armi e stretto una tregua fino al giorno successivo.

Quando, questi sedicenti “patrioti”, capiranno che la cultura è data dalla ricchezza della commistione? Per far lievitare l’impasto della tradizione occorre aggiungere ingredienti diversi. È semplice da capire, ma un giro in Sicilia vi potrebbe aiutare.

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