Chi è il responsabile della rimozione improvvisa del comandante Roberto Streva dai vertici del nucleo investigativo della Polizia penitenziaria? La risposta alla domanda è urgente e richiama alla mia memoria fatti gravissimi, d’altri tempi. Ma andiamo con ordine.

Il 20 dicembre, sulle pagine locali de La Repubblica di Torino, è apparso un articolo di Elisa Sola, un articolo molto circostanziato, che non mi pare sia stato contraddetto. Cosa racconta Sola? Una storia nota in premessa, ma complicata da un colpo di scena: da diversi anni in Piemonte alcune Procure hanno acceso i riflettori sulle carceri di Torino, Ivrea, Biella, Cuneo, raccogliendo denunce di abusi, torture e violenze che sarebbero stati perpetrati da agenti della Penitenziaria nei confronti dei detenuti.

L’articolo ricorda che a svolgere le funzioni di polizia giudiziaria delegate dalle Procure è stata in questi anni la stessa Polizia Penitenziaria, attraverso il proprio nucleo investigativo (un eloquente segnale di fiducia da parte della magistratura nei confronti del Corpo di Polizia Penitenziaria).

A coordinare l’attività investigativa delegata dalle Procure c’è stato il sostituto commissario Roberto Streva che, si legge, per circa vent’anni è stato comandante del nucleo investigativo: non un pivellino insomma. Indagini molto delicate, che hanno ad oggetto le condotte di circa cento agenti, processi da celebrare, accuse tutte da provare (in abbreviato, sottolinea Sola, sono arrivate delle assoluzioni)… Ma non è questo il punto.

Il punto è che in un non meglio precisato giorno d’autunno, quando tutto era stato approntato in gran segreto per dare il via ad una vasta perquisizione che avrebbe riguardato gli indagati di Cuneo, Streva è stato rimosso dall’incarico. Questo fatto avrebbe talmente allarmato i magistrati di Cuneo da determinarli a ritirare immediatamente la delega delle indagini alla Polizia Penitenziaria, ad anticipare alla notte stessa la mega perquisizione che sarebbe stata invece programmata per il mattino seguente e ad affidarla ai carabinieri.

Insomma, stando alla ricostruzione di Sola, la magistratura non avrebbe pensato nemmeno per un istante che quella rimozione fosse dovuta all’imminente pensionamento dello Streva, né al fatto che qualcuno al Ministero si fosse improvvisamente accorto (dopo quasi vent’anni di onorato servizio!) che Streva non avesse i titoli per ricoprire l’incarico di comandante del nucleo investigativo regionale. La magistratura quella rimozione non l’avrebbe proprio digerita, al punto che il capo del Dap, Giovanni Russo, si sarebbe precipitato a Torino per incontrare i magistrati e gettare acqua sul fuoco. Il chiarimento avrebbe però chiarito ben poco, se è vero che le Procure avrebbero deciso di delegare le indagini comunque allo stesso Streva coadiuvato da personale di sua stretta fiducia (nell’articolo si citano a questo riguardo le Procure di Cuneo e Ivrea, non di Torino e Biella).

Questa vicenda merita di essere chiarita con urgenza nelle sedi più opportune e cioè niente di meno che il Parlamento, auspicando che venga fugato il dubbio che la rimozione sia stata decisa all’interno dell’amministrazione per togliere di mezzo un funzionario troppo solerte. Una interrogazione che andrà diretta al titolare della Giustizia, il quale chiederà conto al suo sottosegretario con delega al Dap ovvero Andrea Delmastro. Già, proprio quel Delmastro che ha rivendicato con orgoglio d’aver passato al suo sodale Donzelli informazioni riservate sulla gestione del 41 bis.

E’ necessario fare chiarezza senza indugi, perché questa storia evoca oscuri fantasmi di un’epoca remota nella quale pezzi di Stato, in spregio ai principi democratici fondamentali, agivano per intralciare le indagini della magistratura, anche provocando tempestivi “dirottamenti”.

Due nomi su tutti: Rino Germanà, mortificato professionalmente e offerto su un piatto d’argento ai killer di Cosa Nostra, che soltanto per la prontezza di riflessi del Germanà non riuscirono a eliminarlo; Giuseppe Peri, umiliato e confinato in un ufficio della Questura di Palermo a mettere timbri, dopo che con le sue indagini aveva illuminato la rete di alleanze tra mafia e massoneria nel trapanese. Anzi tre: Giuseppe Linares, che da capo della Squadra Mobile di Trapani si stava avvicinando troppo alle verità scomode dei Messina Denaro e venne improvvidamente spostato ad altro incarico.

È noto che in quest’ultimo caso fu proprio un sottosegretario del governo a manifestare efficacemente la propria volontà di mettere Linares fuori gioco: Antonino D’Alì, potente sotto segretario all’Interno del governo Berlusconi (2001 -2006), condannato poi in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e dallo scorso dicembre detenuto. Con tutta evidenza oscuri fantasmi di una Italia remota e d’altri tempi.

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