Dall’inizio della guerra scatenata da Putin, gli ultimi mesi del 2024 per Volodymyr Zelensky e per il popolo ucraino, che con buona pace di tutti coloro che tifano per la sua rovinosa caduta e per la resa dell’aggredito non ha mai scaricato il suo presidente, hanno rappresentato indubitabilmente “l’ora più buia”. In un ristretto arco temporale si è profilata la tempesta perfetta. Mentre l’attacco di Hamas ha dato a Putin una chance insperata per riposizionarsi come mediatore e “pacificatore” in Medio Oriente e la controffensiva non supportata da un’adeguata difesa aerea ha evidenziato tutti i prevedibili limiti, a Washington il presidente ucraino si è trovato di fronte il muro dei senatori repubblicani che senza mezzi termini gli hanno opposto lo stop ai 61 miliardi di nuovi aiuti “subordinati alla messa in sicurezza” del confine con il Messico.

E la constatazione più significativa e di piena soddisfazione al ricatto repubblicano che ha in Trump il primo ispiratore l’ha data nella conferenza di fine anno. in cui ha socializzato con il sosia prodotto dall’intelligenza artificiale. Vladimir Putin: “Le armi in mano agli ucraini stanno finendo”, aggiungendo significativamente che la guerra finirà quando saranno raggiunti gli obiettivi. Ovvero quando sarà realizzata la “denazificazione e demilitarizzazione del paese” che significa semplicemente la sottomissione dell’Ucraina, costretta a cedere per “la stanchezza” degli alleati litigiosi a Bruxelles e impantanati a Washington.

In attesa di favorevoli prospettive dal fattore tempo, il rito ripristinato dopo la pausa nel primo anno della “operazione speciale” è stato uno sfoggio di suadente sicurezza e calcolata spavalderia da opporre alle immagini martellanti della propaganda di un Zelensky in difficoltà, teso e accorato che deve ricomporre dissidi in patria e chiedere con insistenza aiuto all’estero.

Nella super conferenza di fine anno che è stata anche il lancio della campagna elettorale, senza competitori e senza alcun fastidio dai dissidenti silenziati da una repressione spietata, il dittatore-mattatore nelle linee dirette con i cittadini ha risposto in modo rassicurante anche alla casalinga allarmata per l’aumento delle uova. Ma non ha potuto rispondere adeguatamente “per mancanza di conoscenza” al giornalista che gli ha chiesto del collega americano del Wall Street Journal Evan Gershkovich, detenuto per spionaggio, che rischia 20 anni di carcere. Né tantomeno a nessuna domanda sulla sparizione di Alexey Navalny, perché nessuno avrebbe potuto rivolgergliela, irrintracciabile dalla lista dei detenuti della sua colonia penale da oltre 10 giorni, previo arresto dei suoi avvocati in quanto iscritti al Fondo per la lotta alla corruzione, classificato come organizzazione terroristica. E la progressione nell’inasprimento della repressione va di pari passo con l’esibizione ostentata della forza: “Ogni attacco alle province annesse sarà ritenuto un attacco alla sovranità della federazione Russa” e alla martellante propaganda patriottica secondo cui ci sarebbe una corsa all’arruolamento volontario di 15.000 unità al giorno per garantire gli oltre 600.000 uomini schierati oltre i confini.

Ma in realtà Putin, che non può imporre nuove coscrizioni nell’imminenza del voto, arruola ingannevolmente masse di profughi e richiedenti asilo in fuga da altri conflitti, dalla Somalia, dall’Iraq, da altri paesi arabi e li spedisce al fronte con la minaccia di essere deportati. Chissà che cosa ne pensano i suoi partner del Brics, di cui Putin ambirebbe ad essere leader, e tutti i fustigatori dell’Occidente colonialista e guerrafondaio “equidistanti” da Mosca e Kiev?

In concomitanza con la grande kermesse autocelebrativa di Putin, è avvenuto qualcosa di positivo e importante a Bruxelles, un nuovo buon inizio – in primo luogo sul piano simbolico e motivazionale per l’Ucraina in un momento critico, e per l’Europa che ha fatto la cosa giusta per la sua credibilità, ma anche per la sua stessa identità in coerenza con i suoi valori fondanti. I capi di Stato e di Governo hanno preso finalmente la decisione da tempo annunciata di aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina e Viktor Orbàn è stato isolato e ha ceduto alle pressioni, “accontentandosi” dei 10 milioni di consolazione previa lezioncina a Zelensky, dal suo elevato pulpito, sulla inadeguatezza dell’Ucraina rispetto ai parametri democratici. E tanto per non scontentare troppo l’amico Putin, ha anche chiosato che si è trattato di “una pessima decisione” a cui lui non ha voluto partecipare.

L’Ungheria si è ritrovata così in un angolo cieco per l’opposizione ottusa di un leader antidemocratico, tra l’altro pericolosamente immemore dell’invasione sovietica del 1956 da cui Putin si è dissociato a parole, ma da cui deve essere stato profondamente ispirato. L’Europa si è riconosciuta in un momento di non scontata unità, l’Ucraina è uscita dalla condizione miserevole di Stato-cuscinetto a cui pretendeva di relegarla la Russia ed è in prospettiva più vicina alla Nato. Ma se non vuole favorire Putin, l’Europa non deve tanto compiacersi per l’apertura del negoziato, quanto imporre un’accelerazione alla procedura e contemporaneamente stanziare in tempi brevi i 50 miliardi di aiuti a Kiev, trovando tutti i possibili “mezzi creativi” per bypassare l’opposizione di Orban, che tenterà di alzare ulteriormente la posta.

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