Anche chi non la conosce ma ama la letteratura e la poesia farà bene a leggere i suoi versi: Forugh Farrokhzād è una poetessa iraniana che morì nel 1967 poco più che trentenne, diventata simbolo di fierezza anche per le nuove generazioni. Forugh ebbe una vita privata e pubblica assai tormentata, è il prezzo che pagò per la sua indipendenza: sposatasi giovanissima, lasciò il marito per dedicarsi alla scrittura e all’arte, sia in patria che in Europa, il figlio le venne tolto. Nei suoi bellissimi versi si respirano tutta la profondità, la tensione civile, la carnalità e il tormento interiore che fanno unico e speciale il popolo e le donne iraniane. È lei, la scrittrice persiana oggi più tradotta all’estero, è lei la più amata dagli iraniani.

In questi giorni Domenico Ingenito, docente di Letteratura persiana presso l’Università UCLA di Los Angeles, presenta in Italia (l’ha fatto a Roma e Milano, il 13 dicembre sarà a Venezia, il 18 a Firenze, il 19 a Napoli) Io parlo ai confini della notte (Bompiani), la prima edizione al mondo che raccoglie la sua intera opera poetica, sia in persiano che in traduzione. Altri volumi sono usciti negli scorsi anni, curati ad esempio da Faezeh Mardani, che insegna Lingua e letteratura persiana moderna e contemporanea all’Università di Bologna, e da Francesco Occhetto, ricercatore e traduttore di Letteratura persiana.

Dopo il reportage dell’ottobre 2022 che ho pubblicato sulle pagine del Fatto, sto ultimando Diario persiano, docfilm-reportage sul mio viaggio e sulla cultura iraniana: sono stato tra i pochi giornalisti occidentali ad essere presenti in quel misterioso e splendido Paese in un momento di grande tensione anche internazionale. Senza dimenticare le tragedie della cronaca e della politica, sono convinto sia necessario stabilire anche dei ponti e conoscere più a fondo una realtà che parla molto anche a noi Occidentali. Chi meglio dei traduttori, come racconterà Faezeh Mardani in Diario persiano, può unire e gettare ponti al di là delle guerre e della violenza, tra i popoli, far sì che si capiscano? Come diceva il compianto amico regista Alberto Signetto, “Quando sento parlare di armi metto mano alla cultura”.

Come dice Francesco Occhetto, la poesia è la dimensione per eccellenza del popolo persiano. Puoi entrare in un taxi e sentire il conducente recitare un ghazal di Rumi, di Hafez, di Hattar, puoi vedere sulla tomba di Forugh, a Tehran, torme di ragazze e ragazzi inginocchiati, con il libro aperto per cercare un responso tra i suoi versi, che dica qualcosa sulla loro vita, sul loro presente, sul loro destino. La poesia è una specie di talismano, che riguarda la vita di tutti gli iraniani.

Forugh Farrokhzād, accostata ad Anna Achmatova e Sylvia Plath, non tralascia critiche al consumismo di stile occidentale, da cui molti (soprattutto giovani) sono inevitabilmente attratti, nell’isolamento del Paese. La poesia per Forugh e libertà e tormento, è protesta civile. È personale dannazione, anche: “O ingannevoli parole o ascetiche rinunce sogni e brame/ cosa mi avete portato? / Se mi fossi messa un fiore tra i capelli / non sarebbe stato più bello di questa finta,/ maleodorante corona di carta? / Vedi, lo spirito del deserto mi incanta/ e dal sicuro rifugio del branco/ la magia della luna mi allontana”.

Qual è il prezzo, sul cartellino dei nostri sogni? E del popolo iraniano? Stay tuned. L’Iran è anche questo, ha molto da insegnarci. L’avreste detto?

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