Zlatan Ibrahimovic stretto dietro una scrivania. Dove le giocate geniali sono molto più complesse e le bizze si pagano a caro prezzo. L’annuncio del ritorno dello svedese al Milan è stato accolto in pompa magna, se non altro per il momento delicatissimo che attraversano i rossoneri, con Stefano Pioli sulla graticola e con la zona scudetto lontana 9 punti. “Ibra torna per dare quella scossa necessaria per cambiare la stagione”: questa è la narrazione comune. Potrebbe pure funzionare, ma poi? Quale sarà il reale compito di Ibrahimovic all’interno della società Milan? Difficile immaginarlo confinato al ruolo di uomo-immagine, se si vuole usare un termine gentile. Quella parte la recita con successo solamente Javier Zanetti, vicepresidente dell’Inter, perpetuo come il suo taglio di capelli. Difficile pensare a un Ibra con la flemma e la misura dello storico capitano nerazzurro. Si stuferebbe presto. La pacatezza però serve anche a un dirigente con un ruolo operativo. Altrimenti la cacciata è dietro l’angolo: basta l’esempio di Zvonimir Boban, prima di Paolo Maldini.

Che farà quindi Ibra dietro la scrivania? L’annuncio arrivato lunedì non aiuta. Sarà “partner operativo per il portafoglio di investimenti nei settori Sport, Media e Intrattenimento” e “in questa veste, ricoprirà anche il ruolo di Senior Advisor della Proprietà e del Senior Management di AC Milan”. Come se fosse antani, verrebbe da aggiungere. Provando a tradurre, Ibrahimovic sarà un consulente del club nelle operazioni sportive e commerciali. Si occuperà anche dello sviluppo dei giocatori. Ma il suo mandato includerà pure la promozione del marchio globale e degli interessi commerciali e il sostegno a progetti specifici, come il nuovo stadio. Un impiego a tutto tondo, che equivale al rischio di essere né carne né pesce.

Quel riferimento alla “promozione del marchio” fa pensare proprio a un ruolo alla Zanetti. Che però non ha problemi a non essere protagonista. Siede alla destra di Steven Zhang (solo metaforicamente) restando in silenzio, nel bene e nel male. Non mette becco nelle decisioni, non interviene per prendersi meriti a sproposito ma nemmeno per sbrogliare situazioni difficili. Ha deciso di legare indissolubilmente la sua immagine a quella dell’Inter e gli sta bene così. È una bandiera, sulla scia dell’esempio di Giacinto Facchetti. Ibra è l’antitesi di Zanetti. Ora dichiara che il suo amore per i rossoneri “non avrà mai fine“, ma in carriera ha giocato pure nella Juve e sull’altra sponda del Naviglio. E non ha il carattere per essere confinato a un ruolo passivo, di pura rappresentanza. Che peraltro non è immune da pericoli: per Francesco Totti alla Roma non ha funzionato. Lui non voleva restare in disparte, la vecchia società lo ha percepito come un fastidio. E quella nuova, i Friedkin, per ora si guarda bene dal richiamarlo. Così come la Juve non ha mai richiamato, finora, Alex Del Piero.

È vero che Ibra, al contrario, lo ha voluto fortemente il patron del Milan, Gerry Cardinale. Lo stesso che ha cacciato Paolo Maldini, nonostante un miracoloso scudetto vinto da dirigente, senza farsi troppi problemi a pesare la storia che quel nome si porta dietro. Maldini prima di assumere un ruolo in società ha voluto dai rossoneri poteri e ruoli definiti. Dopo alcuni anni di apprendistato al fianco di Leonardo, ha assunto la carica di direttore dell’area tecnica. Che comporta onori e oneri: c’è la sua mano nella rinascita del Milan (dal già citato scudetto alla semifinale di Champions), ma pure sugli acquisti non azzeccati della passata stagione. E il rischio di entrare in rotta di collisione con la società è dietro l’angolo. Zvonimir Boban, assunto come Chief Football Officer nel giugno 2019 insieme a Maldini, è durato pure meno.

Il rapporto tra Ibrahimovic e Cardinale potrebbe far pensare a una carriera più longeva, seppur da dirigente operativo. Gli esempi recenti di ex giocatori che hanno avuto questa fortuna si contano però sulle dita di una mano. C’è Igli Tare, che dopo aver chiuso la carriera alla Lazio ha resistito per ben 15 anni al fianco di Claudio Lotito, con il ruolo di direttore sportivo. Oppure c’è il precedente di Pavel Nedved: entrato nel 2010 nel consiglio di amministrazione della Juventus, nel 2015 è diventato vicepresidente, con veri e propri incarichi dirigenziali. Braccio destro di Andrea Agnelli, è rimasto in carica fino alle dimissioni di massa di un anno fa, conseguenza del terremoto provocato dall’inchiesta Prisma su plusvalenze e manovra stipendi. Addio per sempre, anche se poi la Corte federale d’Appello lo ha prosciolto da ogni accusa per quanto riguarda la giustizia sportiva. Insomma, per Ibra i precedenti non sono esattamente incoraggianti. Anche perché per fare il dirigente consapevolmente servono preparazione e gavetta. Altrimenti l’alternativa al soprammobile è quella dello yes-man. Un altro ruolo che sembra non calzare bene addosso allo svedese.

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