Quale era il reale motivo che portava l’ex deputato regionale Pippo Nicotra a pagare Cosa nostra? È la domanda che sta al centro di uno dei processi che in Sicilia hanno fatto luce sui rapporti tra poteri istituzionali e criminalità organizzata. Alla sbarra c’è l’imprenditore della grande distribuzione, più volte eletto all’Assemblea regionale siciliana tanto nelle fila del centrodestra che del centrosinistra. Successi imprenditoriali ed elettorali su cui però, a partire dal 2018, si sono allungate le ombre della mafia. Nicotra, che da sindaco di Aci Catena (Catania) nel 1993 subì lo scioglimento del Comune, è stato accusato di concorso esterno per i contatti avuti con gli emissari locali della famiglia Santapaola-Ercolano. Relazioni che, in primo e secondo grado, gli sono valse pesanti condanne, ma che in Cassazione si sono scontrate con una serie di punti interrogativi che, la scorsa primavera, hanno portato ad annullare la sentenza e disporre un nuovo processo in Corte d’appello.

Le accuse a Nicotra hanno interessato trasversalmente l’attività imprenditoriale e politica. Se per i suoi avvocati, i pagamenti alla cosca sarebbero soltanto da inquadrare come frutto delle estorsioni subite per decenni dal loro assistito – e non denunciate, come nel caso di Angelo Di Martino, l’attuale presidente di Confindustria Catania la cui sottomissione al pizzo è emersa nei giorni scorsi – per i giudici d’appello Nicotra, condannato in secondo grado a 4 anni e 8 mesi, avrebbe sostenuto consapevolmente gli interessi di Cosa nostra, con l’obiettivo di ottenere in cambio soprattutto appoggi elettorali.

Per quanto infatti sia emerso che l’imprenditore abbia assunto nei propri supermercati almeno cinque parenti di affiliati mafiosi, per la Corte d’appello ciò non è sufficiente a definire il reato di concorso esterno. Discorso diverso, invece, va fatto per le somme periodicamente fatte arrivare nelle casse della cosca, specialmente in occasione delle elezioni comunali e regionali e perlomeno fino al 2008, ma anche per la disponibilità a cambiare in contanti gli assegni incassati dai Santapaola nell’ambito della raccolta delle estorsioni da altre vittime.

A finire dentro al processo sono stati anche episodi un po’ grotteschi. Tra questi spicca l’incontro avuto con Santo La Causa, reggente della famiglia Santapaola che da latitante non ebbe timore a presentarsi davanti a Nicotra per chiedere il pizzo su alcuni capannoni posseduti dall’imprenditore. Per la Suprema Corte, però, il complesso delle valutazioni fatte finora non bastano a diradare i dubbi. Anzi, introducono un’altra possibilità: Nicotra potrebbe avere sì pagato consapevolmente il clan, ma con l’obiettivo unico di garantirsi i voti in occasione delle elezioni. “La elargizione di denaro in cambio del sostegno elettorale rientra nello schema legale tipico del delitto di cui all’art. 416-ter (cioè il voto di scambio politico-mafioso, ndr)”.

Nella sentenza viene chiarito che il reato di concorso esterno può essere “configurabile anche nell’ipotesi del patto di scambio politico-mafioso, in forza del quale un uomo politico, non inserito stabilmente nel tessuto organizzativo dell’associazione, si impegna, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo”. Tale impegno, però, deve emergere non soltanto dal concreto acquisto dei voti, ma anche dalla stipula di patti che “abbiano inciso effettivamente e significativamente sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale”. Scenario, questo, che nel caso riguardante Nicotra sarebbe tutto da dimostrare. Nell’ipotesi in cui – con il nuovo processo d’appello che dovrà servire anche a valutare meglio le dichiarazioni di Mario Vinciguerra, collaboratore di giustizia e principale accusatore – venisse dimostrato che Nicotra pagava la cosca, ma soltanto per aumentare le possibilità di diventare onorevole, il reato verrebbe derubricato in voto di scambio politico-mafioso. “Con ogni conseguenza in punto di verifica del tempus commissi delicti e – conclude la Cassazione – della eventuale prescrizione”.

Articolo Precedente

“L’agenda rossa e la foto di Berlusconi con Graviano esistono, ma se Baiardo le pubblica lo ammazzano”: la versione di Maiorano

next