di Marco Cianca

“Una democrazia senza democratici”. La definizione coniata da Karl Dietrich Bracher sembra fatta apposta per l’Italia odierna. La frase è stata citata nel 2016 (l’anno di morte dello studioso tedesco) dal sociologo Pasquale Colloca nel libro La recessione civica. In quel volume, veniva rimarcato, dati alla mano che, quando si vive in un periodo di crisi economica, “il malessere materiale e l’insicurezza esistenziale generano un deterioramento sociale, in termini civici e politici”. I cittadini, cioè, “possono girare le spalle alla democrazia”. La paura, la depressione, l’impotenza, la rabbia fanno sì che il timore di retrocedere risulti più potente della volontà di avanzare.

Concetti inquietanti già allora. La sfiducia nei confronti dei partiti e delle istituzioni aveva raggiunto il livello di guardia, alimentando quel fenomeno di egoistica rivalsa che va sotto il nome di populismo. Poi sono arrivati la pandemia, l’invasione dell’Ucraina, l’emergenza energetica, le bibliche immigrazioni, il caos climatico, l’inflazione, la tragedia della Palestina. Troppo per tenere la barra dritta, soprattutto in un Paese immaturo come il nostro.

Il carattere morale della società è ulteriormente regredito ad uno stadio infantile. Ripiegati su noi stessi, vorremmo che qualcuno prendesse la nostra mano guidandoci verso l’uscita del labirinto. È in questo subconscio collettivo che si deposita la proposta dello stravolgimento costituzionale elaborato dagli eredi di Giorgio Almirante, che ora siedono a Palazzo Chigi.

I sondaggi attestano che la voglia di elezione diretta di un capo/capa, premier o presidente che sia, alligna e prospera nell’immenso sottobosco del disprezzo nei confronti del parlamentarismo. Basta con i ribaltoni, con gli inciuci, con i giochi di palazzo: l’essenza della democrazia, e cioè la necessità di dialogo, di confronto, di mediazione, di compromesso, viene rigettata come fosse sinonimo di tradimento. La stabilità diventa una parola magica, un balsamo per coscienze inquiete e insicure. Wilhelm Reich avrebbe nuovo materiale per ampliare i suoi studi sulla psicologia di massa e sulle origini del fascismo.

E allora torniamo a Bracher e alle sue analisi dei totalitarismi. Lo storico riteneva che fu la stessa Repubblica di Weimar a generare il proprio crollo, creando un presidente del Reich eletto dal popolo. Era “la breccia attraverso la quale potevano penetrare le lungimiranti aspirazioni di una opposizione nazionale costituita dai partiti di destra, i quali miravano a rafforzare il potere dittatoriale e a esercitarlo nel senso di una ristrutturazione autoritaria dello Stato, o di una distruzione dell’ordinamento costituzionale democratico-parlamentare a favore di uno Stato retto dalla dittatura di un capo”. La breccia attraverso la quale passò il nazismo.

E poi aggiungeva: “In un modo o nell’altro tutti i regimi autoritari del periodo tra le due guerre cercavano soprattutto di rafforzare lo Stato. Dal Portogallo di Salazar alla Spagna di Franco, dalla Polonia di Pilsudski alle dittature nei Balcani e in Grecia, fino ai regimi dei caudillos latino-americani, il problema comune era quello del rafforzamento e della stabilizzazione in senso nazionalistico dell’autorità dello Stato di fronte alla crisi della democrazia liberale”.

Siamo tornati a quel contesto? Sembrerebbe di sì, a sentire certi discorsi. Il problema non è tanto la pasticciata ‘madre di tutte le riforme’ quanto il retroterra culturale e politico che l’ha ingravidata. Non sappiamo se il parto avverrà, magari con il forcipe di un referendum, o se si tratta di un modo per distrarre l’opinione pubblica da ben altri problemi. Di certo, quando viene ideata una legge elettorale che assegna il 55 per cento dei seggi a chi prende anche un solo voto più degli avversari, appare chiaro che si auspica la dittatura di una presunta maggioranza. Che potrebbe occupare, stile Rai, tutti gli organi di garanzia, con buona pace dei diritti delle minoranze.

Democrazia senza democratici. Un simulacro vuoto e disabitato.

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