di Leonardo Botta

Leggo i sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani (come al solito mi affido alla Supermedia di Youtrend). Con mia sorpresa prendo atto dell’ottima tenuta di Forza Italia, a cinque mesi dalla scomparsa del suo leader supremo: nella rilevazione del 9 novembre il partito fondato da Silvio Berlusconi è dato al 7,3%, in crescita.

Dicevo della mia sorpresa: ero convinto (credo non da solo) che questo soggetto politico, dopo esser nato, sarebbe morto insieme con l’ex cavaliere; a giudicare dai fatti, forse mi sbagliavo. E devo dire che, da persona al di sopra di ogni sospetto (non ho mai votato, e difficilmente mai lo farò, per i partiti di centrodestra), trovo che questa sia una buona notizia. Credo che Forza Italia sia stato il più colossale equivoco politico dell’ultimo trentennio; fondata da un imprenditore sedicente liberale (oltre che sicuramente liberista), di liberale ha mostrato, secondo me, ben poco: partito padronale per antonomasia, oltre che incubatore di conflitti di interesse e leggi ad personam, ritengo che la sua esistenza, seguita alla proverbiale “discesa in campo” del suo leader, abbia nuociuto non poco al nostro paese (visto anche il sostanziale fallimento dei governi berlusconiani, specie l’ultimo), salvo che per un aspetto: aver garantito, nella seconda repubblica, un pur sbilenco e parecchio imperfetto bipolarismo, anche grazie a un salvifico sdoganamento degli ex missini.

Tuttavia, nel frangente storico in cui i partiti nazionalisti catturano il gradimento di quattro italiani su dieci, avere nella coalizione di governo un soggetto convintamente europeista, in cui la vocazione liberale, sfumati almeno in parte i conflitti d’interesse del fondatore (ne restano inevitabilmente gli strascichi, con le aziende di famiglia – Mediaset e Mediolanum in primis – che restano ancora socie di maggioranza del partito), possa forse emergere in maniera più convincente che in passato.

Anche l’emorragia di esponenti nazionali e locali da Fi verso gli alleati Fratelli d’Italia e Lega (dopo i cambi casacca dei vari Malan, Santanché, Castelli) sembra essersi arrestata, forse nella misura in cui nei partiti guidati da Giorgia Meloni e Matteo Salvini non c’è più molto spazio per gli arrivati dell’ultim’ora.

Resta il nodo della sua classe dirigente: l’attuale segretario Antonio Tajani è, parlando per metafore calcistiche, un buon, ordinato e laborioso mediano, ma a mio avviso non un regista sopraffino né tantomeno un centravanti di sfondamento. Lasciando perdere ferri vecchi, ancorché parecchio folcloristici come Gasparri, ex delfine del capo come Ronzulli (forse interessata più ai propri selfie che a ragionare di politica) e finita l’epoca di parlamenti e consigli regionali farciti di avvocati difensori di B., improbabili soubrette e igieniste dentali, restano, oltre a Tajani, la figura competente e moderata di Mulè e i modi garbati e rassicuranti dell’emergente Cattaneo. E immagino che, col senno del poi, qualche rammarico assalga Mara Carfagna, emigrata da tempo verso i lidi calendiani, che poteva forse giocarsi buone carte per la leadership del partito. Staremo a vedere.

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