Dalla Formula Uno alla Formula Liberty Media. In questo weekend, con il Gran Premio di Las Vegas, il Circus si trasforma in qualcosa di mai visto prima, che rappresenta l’antipasto di ciò che avverrà nei prossimi anni. Ovvero un sostanziale ribaltamento dei ruoli tra sport e spettacolo, con il secondo non più elemento di contorno a supporto e completamento del primo, ma autentico fulcro dell’evento. Perché spettacolo significa soldi e Liberty Media è approdata in Formula Uno proprio per questo motivo: valorizzare al massimo il prodotto F1, sfruttando l’onda lunga di un business che dopo la crisi pandemica è in costante crescita. Una missione finora vincente che però non conosce mezze misure e non si ferma davanti a nulla, si tratti di questioni etiche (ad esempio, lo sportwashing del quadrilatero dei paesi della penisola araba), di sicurezza (le condizioni climatiche del Gp del Qatar che hanno provocato malori, collassi e ustioni tra i piloti) o meramente tecnicosportive.

La sicurezza a Las Vegas ha mostrato le sue falle fin dalle prime prove libere, con il caos provocato dai tombini. Quello che più spicca però è l’aspetto tecnico sportivo. Il Gp si corre su tracciato che sintetizza al meglio la filosofia di Liberty Media: maggiore attenzione alla forma che alla sostanza. É puro spettacolo il passaggio dei bolidi sulla Strip, così come lo sono i rettilinei enormi che permetteranno alle monoposto di raggiungere picchi di velocità massimi e favorire quindi i sorpassi. Ma a livello tecnico si tratta di un tracciato banale che, come ha dichiarato Max Verstappen, non offre sfide di rilievo e risulta facile da assimilare. “In realtà non sono molto interessato a correre lì”, sono le parole dell’olandese, “e credo ci sia una grande differenza tra questo evento e il GP di Monaco, perché Montecarlo è un luogo a sé e ha una grande storia”. Anche a Montecarlo sfilano Vip senza soluzione di continuità e i prezzi sono da club privé esclusivo, ma grazie alla particolarità del tracciato la corsa rimane il punto focale dell’evento, senza bisogno di mezzucci come i simboli delle carte da gioco sui cordoli o le derive trash che promette Las Vegas. Il circuito di Zandvoort è stato una discoteca a cielo aperto per tre giorni, però anche in quel caso tutto lo spettacolo sugli spalti e attorno alla pista era un corollario della corsa, non viceversa.

Ulteriore punto critico: l’orario di partenza, fissato alle ore 22 locali di sabato sera. Mai una gara di corse era partita così tardi. Il motivo risiede nella volontà di accontentare il pubblico europeo, al quale basterà puntare la sveglia tra le 6 e le 9 della mattina di domenica per gustarsi la gara in diretta. Con buona pace di parte del pubblico americano, individuato dal CEO di Liberty Media Stefano Domenicali quale bacino di utenza di primaria importanza per la crescita economica della F1. Perché sulla East Coast guardare il Gran Premio significa mettersi davanti alla tv all’una di notte. Senza contare che la partenza serale potrebbe causare problemi alle gomme per la bassa temperatura dell’aria e dell’asfalto. Ma anche in questo caso, that’s entertainment. Quanto meno singolare risulta però l’approccio di Liberty Media con gli Stati Uniti, da un lato visti come il nuovo El Dorado, tanto che in questo Mondiale i Gpsul suolo americano sono diventati tre, ma dall’altro osteggiati sotto il profilo puramente sportivo, con la guerra sotterranea fatta a un’icona dell’automobilismo americano (e non solo) quale Mario Andretti per impedirgli di entrare in F1 con un suo team, come caldeggiato dalla Fia. Liberty Media invece vuole aumentare il numero dei Gran Premi ma non quello dei costruttori, trattando Andretti come l’ultimo dei parvenu.

La novità assoluta rappresentata da Las Vegas è l’organizzazione, della quale per la prima volta si è occupata direttamente Liberty Media, senza utilizzare intermediari. Solitamente grava su quest’ultimi l’onere di rientrare dai costi organizzativi attraverso gli incassi dei biglietti, l’affitto delle hospitality e gli sponsor, mentre Liberty Media incassa la sua quota stabilita preventivamente senza correre alcun rischio. In questo caso invece ha agito per conto proprio, in caso di successo non dovrà dividere i ricavi con nessuno. Ma l’investimento è stato imponente e il budget di 400 milioni di euro stanziato è già stato sforato. Ovviamente i costi sarebbero risultati inferiori se si fosse deciso di fare una pista fuori Las Vegas (basti pensare alle spese per l’occupazione del suolo pubblico), ma anche in questo caso si torna al punto di partenza: correre in mezzo ai casinò non ha prezzo a livello di immagine.

Gli interventi sulla città sono stati pesanti e hanno creato malcontento tra i residenti e i lavoratori. Nei mesi scorsi i lavori di costruzione delle strutture adibite al Gran Premio e di adattamento dell’asfalto del circuito alle esigenze della corsa hanno trasformato Las Vegas in un girone dell’inferno a livello di viabilità, con ingorghi chilometrici a causa della continua chiusura delle strade. La ULNV (University of Nevada, Las Vegas) ha proposto due settimane di didattica a distanza agli studenti: “Sembra di essere tornati ai tempi della pandemia” è stato il tono sarcastico di molti commenti comparsi in rete. Davanti alle fontane dell’hotel Bellagio sono stati abbattuti alberi sani per costruire delle tribune. Il Nevada Taxicab Authority Board ha deciso di imporre un supplemento di 15 dollari su tutte le tariffe relative alle corse tra l’aeroporto internazionale Harry Reid e tre zone a tariffa fissa nei pressi del circuito per incoraggiare la piena partecipazione dei tassisti durante l’evento. La risposta a questa ondata di criticità e proteste? 1.3 miliardi di dollari, ovvero l’importo stimato dell’impatto economico che il Gp avrà sulla città. Circa il doppio del Super Bowl che Las Vegas ospiterà il prossimo febbraio. Perché, come recitava un disco del mai troppo compianto Frank Zappa: We’re only in it for the money.

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