L’imprinting è avvenuto fra le lingue di asfalto di Schiedam, una cittadina a una manciata di chilometri a ovest di Rotterdam famosa per la produzione dello jenever, l’antenato del gin. È lì che Joshua Zirkzee ha iniziato a tirare calci a un pallone. Un’attività che non aveva ancora niente a che vedere con l’idea di vittoria o di sconfitta. Perché l’importante era soprattutto non cadere a terra. Serviva a non grattarsi via la pelle, a non sbucciarsi le ginocchia sul cemento. È stato così che il ragazzo ha appreso come stabilizzare il suo equilibrio, ha imparato come evitare i calcioni, a passare attraverso gli avversari. Un calcio da strada che ora Zirkzee ha trasformato in calcio da stadio. Proprio come prima di lui aveva fatto Ibrahimovic.

Non è un caso che Joshua sia cresciuto vedendo i filmati di Zlatan. D’altra parte i punti di contatto fra i due sono parecchi. E vanno molto al di là di quei piedi da fantasista incastrati sotto a un fisico da pivot (195 centimetri lo svedese, due in meno l’olandese). Entrambi sono riusciti a travasare l’iconografia della loro infanzia nel loro modo di stare in campo. Solo che l’hanno fatto in modi completamente diversi. Ibra ha convertito i gesti dei suoi idoli adolescenziali in colpi distintivi. La sua passione per i film di Bruce Lee è riapparsa sotto forma di scorpione, di tacco al volo con cui Zlatan ha segnato reti e servito assist. In Joshua è tutto più sfumato. Le partitelle a Schiedam riappaiono sotto forme diverse. Nel modo in cui sembra pattinare per il campo. Nella sua capacità di sgusciare fra i corpi avversari. Nella sua tendenza ad avvitarsi su se stesso per ritagliarsi lo spazio buono per eludere i contrasti dei difensori. Entrambi però offrono a chi li guarda la stessa sensazione: quella di essere giocatori che camminano su una linea di confine.

Un po’ nove e un po’ dieci, un po’ centravanti e un po’ trequartisti. Ma non sempre in parti uguali. A Joshua mancano i gol di Zlatan. In senso aritmetico. A 22 anni ha segnato 32 reti, con questa stagione in Serie A che si avvia a essere la più prolifica della sua stagione. A 23 anni Zlatan di gol ne aveva già messi a referto 51. Poi Capello lo aveva curato con dosi massicce di VHS di Van Basten e i numeri dello svedese si erano ingigantiti. Quando Zirkzee è arrivato per la prima volta in Italia, a Parma, nel 2021, si era portato dietro il nomignolo nuovo Ibrahimović e l’etichetta di predestinato. L’idea che potesse essere un succedaneo dello svedese derivava dai suoi esordi con il Bayern Monaco. In quattro partite aveva giocato in tutto una mezz’oretta. E aveva segnato tre gol. Un risultato straordinario che meritava un paragone straordinario. E da qui gli erano state attribuite le stimmate di unto dal signore.

Tutto gli veniva facile. Anche troppo. Così in molti avevano iniziato a prevedere un futuro scintillante. Ma nessuna parola è più vuota di “predestinato”. Soprattutto nel calcio. Perché sottintende che il talento sia un dono divino, un superpotere da usare a proprio piacimento e senza sforzi. Solo che più grande è il genio, più è grande la autodistruttiva che si porta dietro. Zirkzee se n’è accorto a Parma. Qualche partita e poi i problemi al ginocchio che hanno trasformato la sua stagione in un rebus. Quattro presenze. Zero gol. Potenziale sconfinato, concretezza ridotta all’osso. D’un tratto Joshua si era ritrovato a dover rifare tutto daccapo. Era ripartito dall’Anderlecht, un club non esattamente al centro dell’impero. E lì aveva assunto le sembianze del Jesus of Suburbia, il signore dei sobborghi cantato dai Green Day. Trentotto partite, sedici gol, una quantità sterminata di giocate da sgranare gli occhi. La prima stagione a Bologna è stata di adattamento. Joshua aveva davanti Arnautovic. E ha fatto con l’austriaco quello che aveva fatto al Bayern Monaco con Lewandowski. Ha osservato. Ha appreso. Ha reinterpretato.

“Non mi vergogno a dire che quando Arnautovic è andato all’Inter sono stato contento, si era liberato un posto” ha detto alla Gazzetta dello Sport. Ci è voluto poco per capire che aveva ragione. In 12 partite, tutte da titolare, ha segnato 4 reti e ha servito due assist. Entrambi a Ferguson, entrambi frutto della sua capacità di arretrare per giocare di sponda o per aprire gli spazi per gli inserimenti dei compagni. Il gol segnato contro l’Inter è qualcosa di molto vicino a una gemma. Controllo d’esterno in corsa. Prima piroetta. Seconda piroetta. Colpo da biliardo. E palla che si strofina contro la rete. È la perfetta negazione di quella frase che veniva ripetuta qualche anno fa per giustificare il gioco duro e irruento: “This is football, not ballet”. Per Zirzkee non è così. Il suo è calcio, ma anche balletto. Contemporaneamente. Vedere per credere la partita contro il Cagliari, quando quella sua danza leggiadra, quel suo modo di avvitarsi su se stesso per difendere il pallone e aprirsi lo spazio è stato elevato a sistema creando almeno tre occasioni da rete (prima del gol realizzato dallo stesso Zirkzee). È presto per capire se Joshua diventerà davvero come Zlatan, ma per il momento l’olandese è insieme a Soulé il giovane più interessante da seguire in questa Serie A. Una folata di vento fresco in un campionato paludato ormai da troppo tempo.

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