Cinema

Napoleon, il miglior film di Ridley Scott da una ventina d’anni. E Joaquin Phoenix è ancora da Oscar

di Davide Turrini

Joaquin Phoenix è il miglior attore in circolazione. Punto. Se poi aggiungiamo che Ridley Scott ha girato il suo miglior film da una ventina d’anni, allora Napoleon rischia di diventare uno dei film più interessanti della stagione 2023/24. L’imperatore francese, che tra fine settecento e inizio ottocento conquistò con armate indomite e militare spregiudicatezza il continente europeo, facendo andare nei matti aristocrazia e clero ancien regime, sotto la lente d’ingrandimento dell’inglese Scott, e David Scarpa allo script, diventa una sorta di ometto libidinoso e surrettiziamente fragile, nazionalista coraggioso e spinto alla ricerca di un’Europa pacificata con una Francia immensa e dominante in mezzo.

Anche se la trovata che sorregge le due ore e trentotto di Napoleon è il carteggio epistolare tra il Bonaparte e la prima moglie Giuseppina di Beauharnais (una Vanessa Kirby come sempre algida e infingarda, physique du role finemente utilizzato), espediente narrativo che si materializza nella tessitura continua e febbrile delle voci fuori campo dei due protagonisti intenti a sorreggere, e sorreggersi l’un l’altro, tra gli scorci insanguinati ed eterni della storia e la socialmente non inquadrabile discontinua pulsante affettività che li accompagna per un paio di decenni.

Quella che appare quindi come una sottotrama si rivela in realtà un precipuo snodo psicologico che serve come motore drammaturgico per l’intera opera. Il sesso meccanico e rapido di lui e il distacco apparente di lei; i tradimenti di Giuseppina con Napoleone che torna dall’Egitto in gran segreto e imbestialito la caccia di casa (poi la riprende); lui che annulla solennemente il matrimonio perché lei è sterile e per la Francia ci vuole un erede, e lei che va a vivere in una principesca dimora di campagna con lui che la va a trovare di continuo.

A squilibrio segue equilibrio. A equilibrio segue squilibrio. E via così. Proprio come le tappe storiche che portano il corso Bonaparte a diventare prima eccelso generale, poi primo console e imperatore di Francia, infine rispettato perdente e duplice esiliato. Anche qui il duo Scott/Scarpa disegna una parabola epica altalenante che si schizza sempre di terrore e insicurezza, di solennità vittoriosa e di paritaria claudicante sconfitta con imponenti scene di battaglia che prima di tutto vogliono riempire il campo lungo e l’occhio spettatoriale di tanta materia umana presente sul terreno più che di irrisori dettagli di grand guignol (il ralenti per buona parte della carneficina di Waterloo ne è l’esempio massimo).

Così se ne l’assedio di Tolone (1793) un’ancora giovane Napoleone a capo delle truppe repubblicane dimostra una sua tattica e fortunosa temerarietà, nella battaglia di Austerlitz (1805) vive il coronamento strategico da oramai consolidato imperatore con sfumature cromatiche invernali modello battaglia iniziale tra i boschi de Il Gladiatore, mentre nella trappola dell’incendio di Mosca (1812) il pendolo dell’insicurezza personale per il generale di un esercito che finisce allo sbando torna ad oscillare. Si dirà: così storicamente è andata. Vero.

Ma in Napoleon viene come reso inservibile ogni vero e proprio apice agiografico per ricondurre gesta militari, gestione del potere e privato familiare ad un’impossibile e inafferrabile esaltazione del mito storico. Questo senso di sfuggente tormento interiore del protagonista e della storia che vive in prima persona, che si riverbera in una ricostruzione scenografica e di costumi densa e ingessata, come in una fotografia che opacizza scintillii e chiaroscuri, ha come suo interprete supremo un attore che nel mimetizzarsi in Napoleone, mostrato nelle illustrazioni dell’epoca come pingue e non proprio atletico, semplicemente si annulla per diventare altro da sé.

Chiaro, Scott ci mette del suo piazzando attorno a Phoenix attori molto alti, facendo pesare sul capo del premio Oscar l’enorme e iconico cappello napoleonico, dandogli parecchia aria sopra la testa nell’inquadratura, e perfino tentando una impercettibile inclinazione del punto macchina con Napoleone nel punto più basso della direttrice. Però è Phoenix a rifinire l’omino imperiale con tocchi infinitesimali di classe cristallina: si mette sulle punte per osservare qualcosa di apparentemente normale di fronte a lui, si schiaccia in giacche dalle spalle strette, infila il mento negli alti dritti baveri fino a farlo scomparire, appiattisce i sottili capelli sulla fronte, si muove incredibilmente goffo (guardate mentre fugge dalla sala assembleare in preda al panico) e allo stesso tempo trasmette con uno sguardo incessantemente incerto e fiero, una regale fiducia che potrebbe da un momento all’altro sfumare nel vuoto della fine. Sarà ma quella mano grossolana, sfacciata e sgraziata di certi stereotipi storici trattati recentemente da Scott in Napoleon vengono come sfumati, osservati con un’attenzione curiosa e inedita. Prendere o lasciare? Prendere tutto. Anche qualche Oscar (per Phoenix sicuro). In sala dal 23 novembre

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