di Leonardo Botta

Ora che è trapelata la prima bozza della riforma costituzionale sul premierato elettivo promossa dal governo, è cominciato il legittimo grido di allarme di chi in essa individua due forti criticità (o tragedie, secondo alcuni): la limitazione dei poteri del presidente della Repubblica e la mortificazione delle funzioni del Parlamento. La riforma prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri (ora detto anche, più propriamente, premier), accompagnata dalla riesumazione di un forte premio di maggioranza per l’elezione di deputati e senatori.

Le critiche sono di diverso tenore: il ddl, promosso dalla ministra per le Riforme, Casellati, abolirebbe il potere di nomina del presidente del Consiglio da parte del capo dello Stato (oggi sancito dall’art. 92 della Costituzione), relegando quest’ultimo nel ruolo di “notaio ratificatore” dell’esito delle votazioni. Inoltre i giuristi ricordano che nessun paese avanzato presenta quale forma di governo il premierato: l’aveva introdotto Israele, salvo poi tornare sui suoi passi. Viene, inoltre, di nuovo reintrodotto il premio di maggioranza del 55% (addirittura senza alcuna soglia minima) di calderoliana memoria per la formazione del Parlamento, che garantisce un abnorme numero di seggi a forze politiche che, visto anche il patologico fenomeno dell’astensione, potrebbero costituire minoranze nel paese.

Un senso di perplessità assale anche me per il ridimensionamento della figura che più di tutte rappresenta il simbolo dell’unità nazionale. Immaginare i successori di Mattarella ratificare l’elezione del presidente del Consiglio, come l’ospite d’onore di un concorso di bellezza che consegna la fascia alla miss eletta, fa un po’ strano; ma non mi fa strappare i capelli per quello che pur sarebbe un forte depauperamento delle sue funzioni di contrappeso: si sta parlando della volontà degli elettori, in fondo si chiama democrazia.

La riforma affida a premier e governo prerogative certamente debordanti rispetto a quelle del Parlamento, soprattutto grazie all’introduzione di un meccanismo “antiribaltone” (non è stata minimamente valutata l’idea avanzata da alcuni settori dell’opposizione di introdurre, invece, la sfiducia costruttiva). Ma, suvvia, ciò avviene già da diverso tempo (ormai l’azione legislativa è affidata, di fatto, prevalentemente all’esecutivo); soprattutto, questa levata di scudi a difesa delle Camere io la condivido fino a un certo punto: è vero che il Parlamento (erede del glorioso Senato romano) è il fulcro del nostro sistema democratico (ed è un’istituzione che, a differenza del governo, dà doverosamente asilo alle minoranze politiche) ma, diciamola tutta, negli ultimi decenni ha fatto veramente di tutto per screditare se stesso: dalle sistematiche negazioni di autorizzazioni a procedere contro suoi esponenti lestofanti, ai cappi fatti penzolare tra i seggi, ai banchetti consumati a base di mortadella e spumante, il nostro potere legislativo si è parecchio sputtanato.

Mi permetto di evidenziare un altro motivo per cui oggi non mi legherei ai cancelli di Montecitorio o Palazzo Madama a difesa dei nostri parlamentari: il diffuso malcostume dei cambi di gruppo parlamentare che i nostri (non sempre) onorevoli praticano da tempo: 456 (quattrocentocinquantasei!) registrati nella sola scorsa legislatura, ben undici nell’ultimo giorno di legislatura: è vero che il nostro ordinamento non contempla il vincolo di mandato, ma qui si esagera davvero!

D’altro canto fa parecchio sorridere l’altra questione che viene salutata con godereccia soddisfazione tra i banchi della maggioranza: l’ipotizzata la soppressione, con la riforma, della figura dei senatori a vita: certo, dopo aver visto all’opera “gigli immacolati” del calibro di Dell’Utri, Luigi Cesaro per gli amici “Giggino ‘a purpetta” o Cosentino, pare brutto intravedere tra i banchi del Senato “gaglioffi” come la Segre e la Cattaneo, Rubbia, Renzo Piano o Abbado!

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