Dalle fogne della storia riemerge in queste settimane l’antisemitismo. Un virus ciclico della storia europea da combattere senza alcuna esitazione. Di generazione in generazione il fenomeno ripugnante dell’odio antisemita e razzista va smascherato e denunciato, perché contrario a tutto ciò che l’Europa considera suoi valori fondamentali. A cominciare dal motto della Rivoluzione francese “Liberté, Egalité, Fraternité” che liberò gli ebrei vittime dell’antigiudaismo cristiano, creando la democrazia.

Gli eventi drammatici verificatisi in Medio Oriente dopo gli atti barbarici, che hanno caratterizzato l’attacco di Hamas del 7 ottobre, sono stati la causa scatenante. Di fronte al moltiplicarsi di manifestazioni contro Israele per i bombardamenti a tappeto su Gaza Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, lancia l’allarme su uno scivolamento dalla critica nei confronti del governo di Israele ad un atteggiamento di anti-ebraismo che coinvolge “tutti gli ebrei… come persone… come cultura”. Parole su cui meditare.

Marco Impagliazzo, presidente di Sant’Egidio, risponde indirettamente su Avvenire sottolineando la necessità di “stringersi alle comunità ebraiche sparse per il mondo”, preoccupate per il crescente clima di ostilità. Guai, soggiunge Impagliazzo, se si arriva “a portare all’estremo la non accettazione dell’Altro, che tante tragedie ha provocato nella storia”. Lo stesso papa Francesco ha condannato fermamente il diffondersi di manifestazioni antisemite.

Gli accadimenti attuali non sono slegati da quanto accade drammaticamente in Medio Oriente. L’incancrenirsi della piaga purulenta dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese è sotto i nostri occhi. Le parole del Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres fotografano con precisione la situazione. Condannando “in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre” Guterres ha dichiarato dinanzi al Consiglio di sicurezza che “nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili…”. “È importante riconoscere – ha poi soggiunto – che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”. Il violento attacco dell’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, che ha chiesto le dimissioni di Guterres, è peraltro caduto nel vuoto totale. Nessuno degli Stati intervenuti nel dibattito (America inclusa) ha criticato il Segretario generale dell’Onu. Semmai l’escalation di aggressività da parte israeliana – invocazione alla sospensione dei fondi alle Nazioni Unite, blocco dei visti per i funzionari Onu nella striscia di Gaza – ha evidenziato l’isolamento del governo Netanyahu.

La risoluzione dell’assemblea delle Nazioni Unite per una tregua umanitaria a Gaza ha rispecchiato definitivamente il clima predominante a livello internazionale: 120 voti a favore, 14 contro. Mettendo visivamente nell’angolo la politica di Netanyahu. Il titolare dell’Unione europea per gli affari esterni, Josep Borrell, ha commentato che Israele a Gaza non deve lasciarsi “accecare dalla rabbia”. Diecimila morti, fra cui 4000 bambini annichiliti dall’aviazione israeliana, sono un “prezzo del sangue” sufficiente per i 1400 civili trucidati da Hamas il 7 ottobre? In realtà, come ha affermato con coraggio l’ex presidente americano Barack Obama, “nessuno ha le mani pulite” nella partita mediorientale.

Raphael Zagury-Orly, docente alla Sorbona e lettore di Filosofia all’Institut catholique di Parigi, ha scritto un articolo durissimo su quanti tendono a spingere ai margini i crimini compiuti da Hamas. E allo stesso tempo ha rimarcato che “l’alleanza tra Netanyahu e il sionismo religioso, con la loro comune fantasia di appropriarsi della terra che appartiene ai palestinesi, ha una responsabilità enorme negli eventi del 7 ottobre”. E’ qui che entra in gioco anche il ruolo della diaspora ebraica. Guarire la piaga del conflitto implica costruire una convivenza durevole tra israeliani e palestinesi. Papa Bergoglio per primo, invocando pace per Palestina e Israele, ha posto la questione di una sicura esistenza per entrambi. Il presidente Biden, con il suo peso internazionale, ha rimesso sul tappeto l’unica soluzione valida: due popoli, due stati.

Il progetto interpella i protagonisti della scena internazionale e naturalmente direttamente la classe politica israeliana. Ma interpella anche l’azione che possono – e dovrebbero – svolgere in maniera costruttiva le comunità ebraiche più importanti all’estero. Nel discorso alla Conferenza dei rabbini europei il pontefice ha evidenziato che i credenti sono chiamati a “costruire la fraternità e ad aprire vie di riconciliazione… [poiché] non le armi, non il terrorismo, non la guerra, ma la compassione, la giustizia e il dialogo sono i mezzi adeguati per edificare la pace”.

In Italia, ormai da decenni, è prevalsa nell’ebraismo organizzato una tendenza che si potrebbe riassumere così: “Non possiamo dire da qui cosa devono fare i nostri fratelli e sorelle ebrei in Israele: nostro compito è difendere la sua esistenza”. Questo tipo di inerzia ha finito per lasciare carta bianca al deliberato sabotaggio degli accordi di Oslo da parte di Netanyahu, al suo conclamato favoreggiamento di Hamas per indebolire l’Autorità nazionale palestinese, alle sue manovre sistematiche per cancellare l’ipotesi di uno stato palestinese e al suo cinico appoggio al moltiplicarsi di insediamenti ebraici in Cisgiordania – in aperta violazione del diritto internazionale.

Ci sono dei momenti storici in cui ognuno è chiamato a dire da che parte sta. Le comunità ebraiche italiane sono pronte a sostenere senza riserve la nascita di uno stato palestinese sulla base delle risoluzioni dell’Onu? Sono pronte a sostenere la linea più volte espressa da Biden per imporre uno stop alle violenze delle squadracce dei coloni, che in queste settimane terrorizzano e uccidono in Cisgiordania palestinesi e beduini con l’intento di spingerli ad andarsene, “perché questa terra è nostra”? Il parto della pace della pace è sempre difficile, ma il traguardo si raggiunge solo se si garantisce all’altro ciò che si ama per sé.

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