di Giulio Di Donato*

L’estate da non molto finita è stata infiammata dalla discussione sui fatti relativi allo stupro di gruppo di una povera adolescente a Palermo.
Se è vero che tragedie di quel tipo rappresentano sempre un evento a sé, è altrettanto vero che in quella storia non manca nulla degli ingredienti che compongono il dramma della violenza sessuale di gruppo contro una donna.

In questa sede non intendo scendere nei dettagli di quella tragica vicenda, così come delle tante che l’hanno preceduta e seguita. L’obiettivo è piuttosto quello di ragionare sulle implicazioni meno trattate che essa in qualche modo continua a sollevare.

Il punto di partenza da cui ovviamente partire è che la responsabilità non è mai della ragazza, ovvero della vittima. Va precisato questo perché, come spesso accade, qualcuno ha addirittura tentato di scagionare i colpevoli alludendo ad una implicita compiacenza della vittima, come a dire: in fondo se l’è cercata e in parte l’ha voluto. Poi ci sono tanti altri discorsi da fare, al di là delle ripetute analisi del contesto sociale e familiare degradato in cui tali episodi di solito avvengono: le difficoltà dei più giovani di gestire le emozioni, di vivere la dimensione erotico-affettiva, di elaborare il dolore della perdita, di tenere a freno gli istinti, di sopportare gli insuccessi e le delusioni, eccetera eccetera. Ma quello su cui qui mi vorrei soffermare è qualcosa di ancora più profondo, che forse può essere rintracciato al fondo delle tante storie di ordinaria violenza che attraversano l’Italia: l’esibizione di dinamiche primordiali (quale ad esempio la logica del branco intrisa di sadismo e brama di possesso) che riemergono come se fossero gli unici codici possibili tramite cui affermare se stessi.

Sono il volto brutale del nichilismo del nostro tempo ove dilaga, a livello di umori collettivi, un misto di “edonia depressa” e di chiusura asfittica di orizzonti. Sono la manifestazione deviata della società dei consumi e dello spettacolo che tutto sacrifica a scopi di vanità, utilità e potenza, denuncerebbe ancora una volta Pier Paolo Pasolini, ovvero lo specchio di una vita sempre più alienata che quasi sembra non appartenerti più. Manca, soprattutto nei più giovani, una cornice appagante di significati, orientamenti e appartenenze cui riferire la propria esistenza, oltre le logiche più immediate ed elementari, siano esse positive (come può essere ad esempio l’esperienza della genitorialità o dell’amore di coppia) o negative (la manifestazione fine a se stessa della propria forza fisica, con tanto di affermazione crudele del proprio dominio su un corpo ridotto in uno stato di soggezione).

Al di fuori di tutto questo c’è ben poco, se non l’adesione alla realtà così com’è con i suoi falsi idoli, il ripiegamento individuale o la rete ristretta dei legami familiari, amicali e sentimentali, la rottura dei quali ci appare insopportabile perché fuori da questi piccoli mondi c’è il deserto di senso e solitudine che avanza o l’immagine della fine del mondo imminente. Ma queste dinamiche rappresentano anche il frutto avvelenato di una società che, da un parte genera l’illusione che esista una via semplice e alla portata di tutti per guadagnare la ribalta, per scalare la piramide, per uscire dall’anonimato, dall’altra smentisce e tradisce continuamente queste promesse, provocando sentimenti diffusi di frustrazione e impotenza, che facilmente possono rovesciarsi nel loro contrario: frustrazione in violenza, l’impotenza nel potere feroce sull’inerme di turno.

Per citare un celebre cantautore, la sensazione di molti è quella di sentirsi come ad “una festa per cui non hai l’invito”, alla stregua di rifiuti-rifiutati di un sistema competitivo dominato dalla logica della performance (sempre più social-televisiva), che come facilmente ti lusinga e ti blandisce, così ti esclude e abbandona. Rifiuti-rifiutati che poi puntualmente si accaniscono contro chi ritengono debba essere oggetto del loro rifiuto oppure contro chi si è permesso di esprimere nei loro confronti l’ennesimo rifiuto.

Questo discorso vale naturalmente come tentativo di riflessione generale, che non pretende minimamente di esaurire l’insieme dei motivi alla base dei tanti episodi di violenza, bullismo e disperazione che ci circondano (vedi anche il dato rilevante dei suicidi, del consumo di droga e della chiusura al mondo degli hikikomori).

Inoltre, va conosciuta meglio la grandezza statistica di tali soprusi: se siano in aumento rispetto al passato oppure essi siano in calo ma facciano più rumore perché indignano fortunatamente molto di più di prima, e questo perché è cresciuto il livello generale di consapevolezza e le possibilità di denunciare positivamente gli abusi subiti, senza cadere nella spirale dei pregiudizi più odiosi e insopportabili in cui, un tempo, soprattutto la donna vittima di violenza precipitava.

* Dottore di ricerca in filosofia (Università di Salerno), fa parte del comitato di redazione della rivista critica di politica e cultura La fionda.

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