Le Centaure, scritto attorno al 1835, per compattezza narrativa e diligenza ritmica può essere considerato tra le primizie del poème en prose francese. Il centauro Macario in un torrentizio monologo riferisce la propria vita a Melampo, filosofo in udienza presso la creatura mitologica. Macario afferma i segni classici della sua genìa, però venati da un accento in cui si mescolano modernamente nostalgia per il trascorso e brama dell’ignoto. L’Autore ha saputo trovare, con felice coerenza, una voce che per tormento e sapienza ha insieme dell’umano e non. Proponiamo la traduzione del finale di quest’opera pregevole e poco conosciuta.

F.P.

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“O Macario! mi disse un giorno il gran Chirone che nella sua vecchiezza seguivo, siamo entrambi centauri dei monti, ma come opposti sono i nostri usi! Lo vedi, ogni cura dei miei giorni è nella cerca delle piante e tu, tu sei simile a quei mortali che hanno colto sulle acque o nelle selve e portato alle labbra qualche scheggia della cennamella rotta dal dio Pan. Da allora quei mortali, respirato nei resti del dio un qualche spirito selvaggio, o forse acquisito un segreto furore, s’inoltrano nei deserti, s’inabissano nelle selve, costeggiano le acque, si confondono alle montagne, inquieti e condotti da un intento ignoto. Le cavalle beneamate dai venti della Scizia più remota non sono più selvatiche di voi, né più tristi a sera, quando Aquilone si è ritirato. Cerchi gli dèi, o Macario, e donde siano nati uomini e animali e i princìpi del fuoco cosmico? Ma il vecchio padre Oceano di ogni cosa serba in se stesso quei misteri, e le ninfe che lo circondano descrivono cantando un coro imperituro di fronte al dio, a coprire quel che potrebbe evadere dalle sue labbra socchiuse nel sonno. I mortali che per virtù lambirono gli dèi hanno avuto dalle loro mani lire per incantare le genti, o semenze nuovissime per arricchirle, ma nulla dalla loro inesorabile bocca.

In gioventù Apollo mi dispose alle piante e insegnò a mietere dalle loro vene succhi benefici. Da allora ho vigilato sulla vasta dimora di questi monti, inquieto, volgendomi senza posa alla cerca dei semplici, comunicando loro le virtù che scoprivo. Vedi di qui la calva cima del monte Eta? Alcide l’ha spogliata, per erigere il suo rogo. O Macario! i semidèi prole divina stendono pelli di leoni sopra i roghi, e si consumano sulle vette dei monti! i veleni della terra gli infettano il sangue stesso avuto dagli immortali! E noi, centauri generati da un audace mortale nel grembo di un vapore simile a una dea, che mai ci aspetteremmo dal soccorso di Giove, colui che fulminò il padre della nostra razza? L’avvoltoio degli dèi strazia in perpetuo i visceri dell’operaio che formò il primo uomo. O Macario! uomini e centauri conoscono per autori del proprio sangue dei sottrattori del privilegio divino, e forse tutto ciò che mai si mosse all’in fuori degli immortali non è che ladrocinio inflitto loro, che lieve frantume trasportato lontano, come la semenza che vola, dal soffio onnipotente del fato. Si proclama che Egeo, padre di Teseo, nascose sotto il peso di una roccia in riva al mare i ricordi e i segni grazie a cui il figlio potesse un giorno conoscere la sua nascita. Gli dèi gelosi hanno celato in qualche parte la testimonianza della discendenza delle cose. Ma in riva a quale oceano, o Macario, hanno spinto la pietra che la copre!”

Tale era la saggezza in cui mi educava il gran Chirone. Ridotto a estrema vecchiaia, il centauro nutriva nel suo animo pensamenti supremi. Ancora audace, il suo busto cedeva appena sui fianchi sopra cui si ergeva mostrando una lieve inclinazione, come di quercia afflitta dai venti, e la forza dei suoi passi quasi non soffriva la fuga degli anni. Si sarebbe detto che trattenesse dei resti di quella immortalità un tempo ricevuta da Apollo, ma che aveva restituita al dio.

Quanto a me, o Melampo! declino nella vecchiaia calmo come il tramonto delle costellazioni. Serbo ardore tuttora sufficiente a conquistare rocce su cui mi attardo ora a considerare le nubi selvagge e inquiete, ora a guardare giungere dall’orizzonte le Iadi piovose, le Pleiadi o il grande Orione. Ma riconosco che mi riduco e mi sperdo velocemente, come neve che fluttua sulle acque, e che a breve mi confonderò ai fiumi che scorrono nel vasto grembo della terra.

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Georges-Pierre-Maurice de Guérin (Castello del Cayla, Tarn, Occitania 1810 – ivi 1839) nacque e crebbe nel castello paterno, prima di entrare in seminario a Tolosa. Si trasferì a Parigi tra il ’24 e il ’29 per studiare diritto. Qui conobbe e gli fu amico e mentore Jules-Amadée Barbey d’Aurevilly. Tornato a vivere in Occitania, nel ’37 si ammalò di tisi e si sposò a Parigi l’anno successivo. Morì nel castello natale, ventinovenne. I suoi scritti (poesie, diari, poemetti in prosa) furono pubblicati per la prima volta nel 1861 con il nome di Reliquiae.

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