Non è sorprendente che lo “sciopero delle donne” che ha avuto luogo in Islanda martedì abbia avuto poca eco sui media italiani. A parte la lontananza di quell’esotico paese da noi e le terribili notizie che ci riempiono gli occhi e le orecchie, questo tipo di azioni non sono né comprese né particolarmente interessanti per un dibattito mediatico e politico dominato dagli uomini; le poche e importanti donne che pur hanno ruoli di leadership non riescono (o non sono interessate) a modificare la realtà di una questione, quella della parità uomo-donna che, al di là degli auspici, sta agli ultimi posti tra le priorità di governo; questo è senz’altro un tema antico e tuttora irrisolto in tutta Europa, visto che già nel Trattato che istituì nel 1957 la Comunità economica europea si prescriveva: “Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro”.

In Italia rimaniamo agli ultimi posti, anzi in Europa, e siamo andati indietro (75esimo su 146) su questo come su tutti gli altri numeri che riguardano la condizione femminile, dal livello di occupazione (ultime nella Ue), al numero di asili nido e in generale a tutte le strutture del welfare, alla violenza sulle donne; anche l’ultima chicca del ripristino dell’Iva sugli assorbenti fa parte di questa mancanza di considerazione.

Nel nostro paese molte donne sono state convinte che le quote rosa non servano, sono costrette ad accettare in solitudine una situazione di subordinazione e la metà di loro non ha indipendenza economica. Eppure, tutti e tutte sappiamo dove sta il problema centrale: la gestione della famiglia, dei figli e degli anziani riposa sulle donne in assenza di strutture adeguate e anche per questo il livello di occupazione e i salari delle donne sono più bassi nonostante spesso siano più preparate, hanno carriere discontinue e possibilità di assumere ruoli di leadership più limitati.

Il senso reale dell’azione delle islandesi, la lezione che viene da quel paese nonostante sia il paese migliore al mondo nella classifica della “World gender gap” è che nulla cade dal cielo. Anzi, forse è proprio perché sono le prime al mondo che sanno di dovere continuare ad agire. Sono le donne stesse, e in particolare chi ha già raggiunto dei risultati per aiutare le altre, che si devono organizzare, coalizzare, sapere agire insieme per ottenere risultati concreti; che passano naturalmente anche e soprattutto da un lavoro culturale da sostenere con adeguate risorse, che sconfigga certo il patriarcato ma anche la loro stessa convinzione che non ci sono alternative. E soprattutto bisogna accettare, come fanno le islandesi, che la battaglia non è mai finita.

Nel 1975, le islandesi organizzarono il loro primo sciopero a cui aderì oltre il 90% delle donne. L’impatto sulla società e la politica furono importanti anche perché fu importante il ruolo del partito “Alleanza delle Donne”, che venne creato subito dopo. Come spiega su RaiRadio1 Linda Laura Sabbadini, voce imperdibile sulla realtà e i numeri della condizione femminile, nel giro di un anno la rappresentanza femminile in Parlamento passò dal 2-5% al 25% grazie al successo del partito, fu eletta la prima (di molte) presidente donna e questo tema divenne centrale anche per il resto della politica, tanto che il partito si sciolse nel 1999.

Guardando le interviste agli uomini islandesi qua e là sui giornali (stranieri) le loro considerazioni sono indicative: “oggi tocca a me” e la partecipazione allo sciopero della prima ministra è considerato normale. E allora servirebbe anche in Italia scioperare? Certo, ma sono le donne prima di tutto che devono esserne convinte e devono sapere riprendere a mobilitarsi insieme, agendo per ottenere risultati concreti e non accontentandosi solo delle parole di chi promette – ivi inclusi i/le responsabili politici/e o di impresa – ma poi non fa.

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