Per coloro che hanno dimestichezza con la lingua friulana, potendo apprezzare la connaturata musicalità di questa lingua neolatina rimasta miracolosamente immutata nel corso dei secoli fino ad oggi, già ad una prima lettura il testo pasoliniano si intride, anche nei dialoghi apparentemente meno significativi, di una profonda intensità lirica ed emotiva.

Scritto nella variante casarsese, con le caratterizzazioni tipiche delle parlate del Friuli occidentale e ricercati inserti arcaici (rassegnation, pretiosa, gratia…), a differenza della coeva produzione poetica in friulano, del testo de I Turcs tal Friul non si conservano versioni in lingua redatte dall’autore. Soltanto in parte ci soccorre il confronto con i medesimi termini tradotti dall’autore in lingua, dal momento che molti altri, assenti nei componimenti poetici o applicati ad altri contesti, si prestano spesso, dato il loro ampio spessore semantico, a molteplici e a volte discordanti interpretazioni.

L’invito del curatore della collana “Ardilut”, Giorgio Agamben, ad accompagnare questa nuova edizione de I Turcs tal Friul con una traduzione in versi, deve intendersi soprattutto come un tentativo di rendere, attraverso lo sguardo di un poeta, al lettore non friulano manifesto – anche visivamente – un testo di per sé già fortemente e inequivocabilmente poetico (una traduzione valorizzante, quindi, più che una “riscrittura”). Nella versione in versi italiana, questo statuto, che diremmo quasi naturalmente poetico del dialetto in genere (e in modo eccezionale del prezioso idioma casarsese del giovane Pasolini), viene sottolineato da un’esplicitazione dei nessi interni, ovvero dalla resa (appena) versificata in lingua, che cerca di restituire il movimento interno al testo friulano, oppure – come una sorta di “memento” in forma poetica – di allarmare il lettore ricordandogli che quel passo, nella versione originale, in realtà è animato da una musicalità profonda, forse intraducibile.

La prosa di Pasolini difatti è una prosa intensamente ritmica, intimamente poetica, che si annuncia nella prima presa di parola, la preghiera levata da Pauli, in cui si rincorrono non soltanto, come toni o momenti di una melodia composita, frasi brevi e anafore e assonanze ripetute («distrùt, sparìt, dismintiàt», «sensa pretesis, sensa ideài, sensa na gota di ambitiòn», «sintùt / frutùt…», etc.), ma tutta la sonorità orale di questo antico idioma sembra residuarsi nel testo, legare in modo immediato l’enfasi dell’orante alla sua lingua natale.

Esistendo già una valida ed affidabile traduzione del testo, facilmente consultabile, la scrittura in versi in più punti, senza mai perdere di vista il contenuto, si è orientata ad evocare l’intraducibile più che a riflettere fedelmente ciò che forse solo in apparenza ci sembra traducibile, come inseguendo – e mettendo preventivamente in conto di potersi smarrire nel buio – le tracce impalpabili di una musica lontana.

Questo graduale avvicinamento al testo pasoliniano ha comportato, in primis, una rilettura attenta dell’originale in friulano appositamente rivisto per questa edizione, assieme a Graziella Chiarcossi, guidati nella decifrazione dei passi più oscuri da uno dei massimi conoscitori della lingua friulana, Federico Vicario, professore di Glottologia e linguistica dell’Università degli Studi di Udine, che mi ha proposto anche diverse inedite e più convincenti interpretazioni di alcuni termini impiegati da Pasolini.

Assieme al professor Vicario desidero ringraziare Giorgio Agamben, Elenio Cicchini e Nicoletta Di Vita per i preziosi suggerimenti e la rilettura della traduzione in lingua.

I.C.

Meni Colùs

Ho qualcosa nel cuore. Un gelo,
un abbandono… Dove sono qui?…
Ah, nel mio paese, mi trovo, nel mio
portico… Io non so se ho sognato
o sono vivo. Come se fossi tornato
in questi luoghi dopo un secolo
di morte; un secolo di lontananza.
Aria scura, grigia in cui si confonde
ogni cosa che vedo; la mia casa
e le tegole, e i cespugli, sul punto
sembrano di svanire. Così forse
vedrebbero gli occhi di un morto
se dovesse tornare, dopo tanto
tempo, di nuovo nella sua casa…

MENI COLÙS – I ài alc tal còur… Na glas, un abandòn… Dulà sòiu cà?…Jeh tal me paìs, i soi, tal me puàrtin… I no sai s’i soi insumiàt o vif. A mi par di essi tornàt cà dopu un secul di muart; un secul di lontanansa. Ta l’aria scura e grisa i viòt dut confùs; a mi par qe la me çasa, e i cops, e i bars, a sedin lì par svanì. Cussì forsi al viodarès un muàrt, s’al ves di tornà, dopu tant timp, ta la so çasa…

*

CORO DEI TURCHI

Infinito il lume della tua sfera
brilla, luna, nel sereno dei vecchi
morti. Ma noi siamo vivi con corpi
giovani coperti di oro antico
e lucente. Beati per i campi
dei morti andiamo cantando noi
con una rabbia dentro il petto
nascosta: gioie e collane dentro
la nascondono nel nostro volto
senza pensieri di Turchi lontani.
Luna, rischiara la terra dei friulani
quando, dalle stalle, invocano Gesù!

CORU DAI TURCS

Luna, infinit il lun da la to sfera
al brila tal seren dai veçus muars.
Ma nu i sin vifs cun cuarps di zovinùs
cujèrs di oru antìc e imbarlumìt.
I zìn pai çamps dai muars çantant beàs
cu na rabia platada drenti al sen:
corài e trìmui a ni la plàtin drenti
tal volt sensa pensèirs di Turcs lontans.
Luna, sclarìs la çera dai Furlans
co a clamin da li stalis: Jesus, Jesus!

*

Pauli Colùs

Avevi ragione, fratello mio.
Tu eri giovane, ma eri vivo.
Di questo io non mi accorgevo.
Tu eri tutto giovane dai capelli
ai piedi: tutto giovane e florido.
E avevi paura di morire. Adesso
vedo il tuo corpo di morto e solo
in quest’istante io mi accorgo
della tua gioventù. Vivo com’eri
tu e giovane, pregare potevi
volendo; o bestemmiare; oppure
morire… Povero giovane morto,
solo la giovinezza col bel viso
colorito adesso nel tuo corpo
rimane. Avevi ragione, fratello,
a bestemmiare Dio, ad imprecare
contro la Vergine! Chissà dove
sono Loro, là in alto, così lontani,
beati! E noi qui a morire, a pregarli
pure! Non è giusto che proprio
questo sia il giorno della mia
morte. Proprio oggi che il corpo
morto di mio fratello il ricordo
fa riaffiorare in me della mia
giovinezza. Non è giusto, no,
che qui ogni cosa debba bruciarsi
per poi sparire in questo povero
paese cristiano. Tu avevi ragione
fratello, di bestemmiare il Signore,
di imprecare contro la Vergine!

PAULI COLÙS – Ti vevis razòn, fradi. Ti eris zovin, ma ti eris vif; e jo i no mi ’necuarzevi. Ti eris dut zovin dai çavièj ai piè: dut zovin e flurìt; e ti vevis poura di murì. Ades i mi necuàrs da la to zoventùt, ades q’i viòt il to cuarp di muart. Un zovin vif coma q’i ti eris al podeva preà, al podeva; o blestemà; o murì… E ades puor zovin muart tal to cuarp a resta doma qe la zoventùt cu ’l biel volt culurìt. Ti vevis razòn, fradi, di blestemà il Signour, di sacramentà la Verzin! Cui sa dulà q’a son Lour, se als, se lontans, se beàs! E nualtris cà a murì e preàju ença! A no è justa qe jo i vedi di murì propit vuei che tal cuarp di me fradi muart i mi soi sovignùt da la me zoventùt; a no è justa, no, qe dut a vedi di brusasi e sparì ta qistu puor paìs cristiàn. Ti vevis razòn, fradi, di blestemà il Signour, di sacramentà la Verzin!

Testi tratti da: Pier Paolo Pasolini, I Turcs tal Friùl / I Turchi in Friuli (Quodlibet, 2019, a cura di Graziella Chiarcossi, traduzione in versi di Ivan Crico. Prefazione di Giorgio Agamben)

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