di Ilaria Muggianu Scano

In Sardegna il dio del trasformismo ha dato inizio al valzer della trasmigrazione da cadrega in cadrega apparentemente più sicura. Tra sondaggi, accordi sommersi e candidature lanciate per sondare il polso del popolino si è quasi certi, come da autonomista tradizione ichnusina, che i nomi che serpeggiano alle prime battute della campagna elettorale, che danno per scontato un Solinas bis, non saranno certo quelli del rush finale. Se per la premier Meloni la partnership sarda è fisiologicamente targata Paolo Truzzu, sindaco FdI del capoluogo dell’isola, come scelta primaria dell’esecutivo regionale, il tavolo dei 5stelle sembra ispirarsi al trend della leadership femminile del Governo centrale e non accusare alcun tentennamento nell’accogliere la candidatura sarda decisa a Roma a favore di Alessandra Todde.

Il tavolo Schlein appare decisamente più composito e complesso. Secondo il noto politologo sardo Vito Biolchini sono possibili: «due cripto candidature, Graziano Milia e Renato Soru», l’una fortemente connessa all’altra «di sicuro, l’ex presidente della Regione teme la discesa in campo di Milia (perché la sente come emanazione del suo grande nemico di sempre, Antonello Cabras) e contro questa è pronto a fare veramente fuoco e fiamme; ma in realtà, quello che passa in testa a Soru nessuno lo sa».

Difficile rinvenire collocazione e intenzioni esplicite degli eredi dello storico esponente dell’ UdC isolano Giorgio Oppi, scomparso durante il mandato Solinas. Ma le urne sarde potrebbero riservare sorprese inaspettate, agitate da chi non compiace e non tace. A sondare la pancia delle piazze tropicali della Sardegna, il polso del popolo è altro rispetto alla stanza dei bottoni, e parrebbe accadere nelle ultime settimane qualcosa che sfugge ai radar della febbrile scacchiera della tradizione politica degli equilibrismi isolani. Qualcosa che si muove dal basso, insomma. «De’, perché non parli» inveì esasperato Michelangelo contro il più che perfetto Mosè marmoreo, muto, nella tomba di Giulio II, allo stesso modò generazioni di politici sardi avrebbero voglia di scuotere dal torpore il giovanissimo partito del non-voto, che emette sentenze solo a mezzo social ma poi non rinuncia a una domenica di svago per esprimersi nelle sedi opportune.

Eppure qualcosa si agita. Da nord a sud, passando per il centro, dovunque si trovi a parlare di nuove politiche, di cultura identitaria e coscienza di popolo, Sergio Zuncheddu, editore de L’Unione Sarda, sembra coagulare attorno a sé l’entusiasmo transpartitico e soprattutto transgenerazionale di migliaia di persone. Qualcosa del tutto inedito per la politica sarda recente. Scene di giovanissimi che prendono la parola per ottenere da Zuncheddu suggerimenti su come organizzare futuro lavorativo e ideale politico. Un motto spontaneo senza alcuna organizzazione formale dichiarata, se non un certo riconoscimento del carisma personale dell’imprenditore nell’inedita veste di affabulatore.

La Sardegna sembra non dimenticare: Zuncheddu è quello che non esitò a insorgere contro Flavio Briatore e le sue parole poco lusinghiere verso il popolo sardo che da decenni ospita il suo Billionaire. Per l’imprenditore cuneese: «I sardi? Vogliono fare i pastori e non sanno neanche cos’è il turismo. Hanno un’isola e non lo sanno perché pensano che la gente arrivi per caso», immediata la replica dell’editore Zuncheddu: «A proposito di prediche, Flavio, debbo dirti con franchezza che ci siamo rotti i c……i di sentirci dire cosa siamo, cosa sappiamo fare e cosa no, quanto siamo arretrati e quanto no».

Ad oggi, a un pugno di settimane dalle consultazioni regionali, cartina tornasole delle successive Europee, i pronostici sono poco più che golose speculazioni intellettuali, e siccome il popolo sardo sa bene che dove c’è fumo c’è fuoco, da millenni ha affinato l’arte di arrostire le carni sottoterra, per celare i segnali ad avventori famelici e male intenzionati e condividere il pasto solo al momento opportuno.

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